Molti scrivono ogni sera quello che hanno fatto il giorno; alcuni tengono ricordo delle commedie sentite, dei libri letti, dei sigari fumati; ma c è uno su cento, su mille, che faccia una volta l'anno, o che abbia fatto una volta in vita sua, l'elenco delle persone che conosce?
E non intendo dire di quei pochi, con cui si ha che fare, o che si vedono, o a cui si scrive; ma di quel gran numero di persone, viste altre volte, che forse non rivedremo, e che pur tornano ancora alla mente molto tempo dopo che si son lasciate, a mano a mano più di rado, fino a che scompaiono affatto, e non ci si pensa mai più.
Chi di noi non ha perduto la memoria di cento nomi e smarrito la traccia di cento vite?
Eppure è una gran perdita per l'esperienza, e io ne son tanto persuaso, che, se ricominciassi a vivere, vorrei spendere mezz'ora al giorno nel noioso lavoro di notar nomi e casi di persone, anche le più indifferenti.
Che storia intricata e strana mi ritroverei tra le mani, se avessi serbato ricordo di tutti i miei compagni delle prime scuole; e continuato a chiederne notizie qua e là, via via che se ne presentava l'occasione, e tenuto dietro, in qualche modo, alle vicende principali di ciascuno! Ora, di quelle due o tre centinaia di ragazzi che conoscevo, venti o trenta appena mi son rimasti nella memoria, e so dove sono, e che cosa fanno; degli altri non so più nulla.
Per qualche anno ho avuto davanti agli occhi l'immagine distinta di tutti: erano trecento visi rosei che mi sorridevano, e trecento giacchette che mostravano ciascuna, più o meno, la condizione del babbo, da quella di velluto del figliuolo del sindaco a quella infarinata del figliuolo del fornaio; e mi pareva di sentirmi ancora sonar nell'orecchio, a una a una, le voci di tutti; e vedevo il posto di ciascuno nei banchi della scuola, e ricordavo parole, atteggiamenti, gesti.
Ma a poco a poco tutti quei visi si confusero in una sola striscia color di rosa, tutte quelle giacchette in un color bigio uniforme, tutti quei gesti in un tremolo indistinto, tutte quelle voci in un mormorio fioco; fin che una nebbia fitta coprì ogni cosa, e anche il mormorio tacque, e la visione scomparve.
E mi dispiace, e molte volte mi piglia il desiderio di squarciar quella nebbia, e di ravvivar la visione.
Ma ohimè! Non li troverei più insieme; e se dovessi andarli a cercare a uno a uno, chi sa quanti giri e rigiri mi toccherebbe fare, e dove metter piede, e tra chi! Forse passerei da una sacrestia a una caserma, da una caserma a un'officina, dalla officina allo studio d'un avvocato, dallo studio dell'avvocato a una carcere, dalla carcere a un palco scenico, dal palco scenico, pur troppo! al camposanto, e dal camposanto sur un bastimento mercantile in un porto dell'America o delle Indie.
Chi sa quante avventure, quante disgrazie, quante tragedie domestiche, e mutamenti di visi e di costumi e di vita, in così piccolo numero di gente e in così breve giro di tempo!
Eppure, non son quelli gli amici che si desidera più caldamente di rivedere.
Non solo; ma se badiamo a discernere in noi il sentimento di mesto desiderio che ci risospinge verso gli anni della fanciullezza, da quello che ci pare ne sospinga verso i compagni di quegli anni, ci meravigliamo di trovar questo così debole, e fors'anco di non trovarlo nemmeno.
E perchè ci dovrebb'essere, e forte?
Stavamo sovente insieme, eravamo allegri, ci cercavamo, ci desideravamo; ma le nostre anime non si ricambiavano nulla di quello che le ravvicina e le stringe e vi lascia una traccia.
Le nostre amicizie si legavano e si scioglievano con uguale facilità.
Avevamo bisogno di un compagno che facesse eco alle nostre risa e ci aiutasse ad arrampicarci sugli alberi e ci rimandasse la palla con un colpo vigoroso; e a ciò serviva meglio il più destro, il più chiassone e il più ardito; e questo, il più delle volte, era l'amico più caro.
Ma volevamo bene ai deboli?
Domandavamo ai malinconici: - Che cos'hai?
- E se ci dicevano: - Il tale è morto - si piangeva?
Ah! non eravamo amici.
E sarà certo seguìto a molti di rivedere dopo quindici anni un compagno delle scuole elementari.
Si riceve una lettera, di cui non si riconoscono i caratteri, si getta un'occhiata alla firma, e si dà un grido: - Come! Lui! È vivo?
- Si piglia il cappello e si corre all'albergo.
Oh certo che, mentre si corre, il cuore batte, e salendo la scala s'affretta il passo con grande ansietà, e si ride, e si gode, e non si darebbero quei momenti per tutto l'oro del mondo.
Ma son quelli i più bei momenti.
Si entra nella stanza con impeto, si bacia un uomo, nel quale, sì, a guardarlo bene, si ravvisa qualche tratto del fanciullo d'una volta; l'uno domanda all'altro: - Che fai?
- e l'uno ricorda all'altro, in fretta e in furia, qualche bazzecola di quando si andava a scuola e poi....
è finita.
Cominciate a pensare: - Chi è costui?
Come ha vissuto, dacché non ci siamo visti?
Che cos'è seguito in quell'anima?
È buono, è tristo, è un credente, è uno scettico?
Io non ho niente di comune con lui, non lo conosco.
Bisognerebbe scrutarlo, studiarlo; ma dunque non è un amico! - E quel che pensate voi, lo pensa lui, e la conversazione procede languida e fredda; e forse dalle prime parole vi accorgete che avete battuto due opposte vie; egli vi lascia trasparire una striscia del suo berretto frigio, voi, secondo lui, la punta del vostro codino di monarchico; voi gli date una tastatina sulla letteratura, egli a voi sul seme dei bachi da seta; voi, prima di dirgli che avete moglie, gli domandate s'egli l'ha; ed egli vi risponde: - Fossi minchione! - e finite col lasciarvi, stringendovi la punta delle dita, e ricambiandovi un sorriso morto appena nato.
Gli amici d'infanzia! Cari sì, sopra tutti, quando si siano vissuti insieme anche gli anni della giovinezza; ma se no, che cosa sono fuor che fantasmi?
E l'infanzia stessa! Non ho mai potuto capire perchè si rimpiangono da molti quegli anni, - anni in cui non si soffre, è vero, ma non si pensa, non si lavora, non si crede, non si prorompe in quegli scoppi di pianto ardente e amaro, che purificano l'anima e fanno rialzar la fronte altera e splendida di speranza e di coraggio nuovo! Oh mille volte meglio soffrire, faticare, combattere e piangere, che sfumar la vita in quel riso continuato e inconsapevole, che nasce da nulla e di nulla si pasce e di nulla si turba! Meglio star sulla breccia, sanguinosi, che in mezzo ai fiori, sognando.
E non intendo dire di quei pochi, con cui si ha che fare, o che si vedono, o a cui si scrive; ma di quel gran numero di persone, viste altre volte, che forse non rivedremo, e che pur tornano ancora alla mente molto tempo dopo che si son lasciate, a mano a mano più di rado, fino a che scompaiono affatto, e non ci si pensa mai più.
Chi di noi non ha perduto la memoria di cento nomi e smarrito la traccia di cento vite?
Eppure è una gran perdita per l'esperienza, e io ne son tanto persuaso, che, se ricominciassi a vivere, vorrei spendere mezz'ora al giorno nel noioso lavoro di notar nomi e casi di persone, anche le più indifferenti.
Che storia intricata e strana mi ritroverei tra le mani, se avessi serbato ricordo di tutti i miei compagni delle prime scuole; e continuato a chiederne notizie qua e là, via via che se ne presentava l'occasione, e tenuto dietro, in qualche modo, alle vicende principali di ciascuno! Ora, di quelle due o tre centinaia di ragazzi che conoscevo, venti o trenta appena mi son rimasti nella memoria, e so dove sono, e che cosa fanno; degli altri non so più nulla.
Per qualche anno ho avuto davanti agli occhi l'immagine distinta di tutti: erano trecento visi rosei che mi sorridevano, e trecento giacchette che mostravano ciascuna, più o meno, la condizione del babbo, da quella di velluto del figliuolo del sindaco a quella infarinata del figliuolo del fornaio; e mi pareva di sentirmi ancora sonar nell'orecchio, a una a una, le voci di tutti; e vedevo il posto di ciascuno nei banchi della scuola, e ricordavo parole, atteggiamenti, gesti.
Ma a poco a poco tutti quei visi si confusero in una sola striscia color di rosa, tutte quelle giacchette in un color bigio uniforme, tutti quei gesti in un tremolo indistinto, tutte quelle voci in un mormorio fioco; fin che una nebbia fitta coprì ogni cosa, e anche il mormorio tacque, e la visione scomparve.
E mi dispiace, e molte volte mi piglia il desiderio di squarciar quella nebbia, e di ravvivar la visione.
Ma ohimè! Non li troverei più insieme; e se dovessi andarli a cercare a uno a uno, chi sa quanti giri e rigiri mi toccherebbe fare, e dove metter piede, e tra chi! Forse passerei da una sacrestia a una caserma, da una caserma a un'officina, dalla officina allo studio d'un avvocato, dallo studio dell'avvocato a una carcere, dalla carcere a un palco scenico, dal palco scenico, pur troppo! al camposanto, e dal camposanto sur un bastimento mercantile in un porto dell'America o delle Indie.
Chi sa quante avventure, quante disgrazie, quante tragedie domestiche, e mutamenti di visi e di costumi e di vita, in così piccolo numero di gente e in così breve giro di tempo!
Eppure, non son quelli gli amici che si desidera più caldamente di rivedere.
Non solo; ma se badiamo a discernere in noi il sentimento di mesto desiderio che ci risospinge verso gli anni della fanciullezza, da quello che ci pare ne sospinga verso i compagni di quegli anni, ci meravigliamo di trovar questo così debole, e fors'anco di non trovarlo nemmeno.
E perchè ci dovrebb'essere, e forte?
Stavamo sovente insieme, eravamo allegri, ci cercavamo, ci desideravamo; ma le nostre anime non si ricambiavano nulla di quello che le ravvicina e le stringe e vi lascia una traccia.
Le nostre amicizie si legavano e si scioglievano con uguale facilità.
Avevamo bisogno di un compagno che facesse eco alle nostre risa e ci aiutasse ad arrampicarci sugli alberi e ci rimandasse la palla con un colpo vigoroso; e a ciò serviva meglio il più destro, il più chiassone e il più ardito; e questo, il più delle volte, era l'amico più caro.
Ma volevamo bene ai deboli?
Domandavamo ai malinconici: - Che cos'hai?
- E se ci dicevano: - Il tale è morto - si piangeva?
Ah! non eravamo amici.
E sarà certo seguìto a molti di rivedere dopo quindici anni un compagno delle scuole elementari.
Si riceve una lettera, di cui non si riconoscono i caratteri, si getta un'occhiata alla firma, e si dà un grido: - Come! Lui! È vivo?
- Si piglia il cappello e si corre all'albergo.
Oh certo che, mentre si corre, il cuore batte, e salendo la scala s'affretta il passo con grande ansietà, e si ride, e si gode, e non si darebbero quei momenti per tutto l'oro del mondo.
Ma son quelli i più bei momenti.
Si entra nella stanza con impeto, si bacia un uomo, nel quale, sì, a guardarlo bene, si ravvisa qualche tratto del fanciullo d'una volta; l'uno domanda all'altro: - Che fai?
- e l'uno ricorda all'altro, in fretta e in furia, qualche bazzecola di quando si andava a scuola e poi....
è finita.
Cominciate a pensare: - Chi è costui?
Come ha vissuto, dacché non ci siamo visti?
Che cos'è seguito in quell'anima?
È buono, è tristo, è un credente, è uno scettico?
Io non ho niente di comune con lui, non lo conosco.
Bisognerebbe scrutarlo, studiarlo; ma dunque non è un amico! - E quel che pensate voi, lo pensa lui, e la conversazione procede languida e fredda; e forse dalle prime parole vi accorgete che avete battuto due opposte vie; egli vi lascia trasparire una striscia del suo berretto frigio, voi, secondo lui, la punta del vostro codino di monarchico; voi gli date una tastatina sulla letteratura, egli a voi sul seme dei bachi da seta; voi, prima di dirgli che avete moglie, gli domandate s'egli l'ha; ed egli vi risponde: - Fossi minchione! - e finite col lasciarvi, stringendovi la punta delle dita, e ricambiandovi un sorriso morto appena nato.
Gli amici d'infanzia! Cari sì, sopra tutti, quando si siano vissuti insieme anche gli anni della giovinezza; ma se no, che cosa sono fuor che fantasmi?
E l'infanzia stessa! Non ho mai potuto capire perchè si rimpiangono da molti quegli anni, - anni in cui non si soffre, è vero, ma non si pensa, non si lavora, non si crede, non si prorompe in quegli scoppi di pianto ardente e amaro, che purificano l'anima e fanno rialzar la fronte altera e splendida di speranza e di coraggio nuovo! Oh mille volte meglio soffrire, faticare, combattere e piangere, che sfumar la vita in quel riso continuato e inconsapevole, che nasce da nulla e di nulla si pasce e di nulla si turba! Meglio star sulla breccia, sanguinosi, che in mezzo ai fiori, sognando.