Testo - "Villa Glori - Ricordi ed aneddoti dell'autunno 1867" Giovanni Cairoli

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Il sole era già calato in un ampio manto di nuvole d'oro: cominciava ad
imbrunire.

Il treno correva monotono attraversando le desolate ed interminabili
lande della campagna romana; la conversazione nostra era andata
gradatamente languendo: il crepuscolo stesso invitava al silenzio.

Un senso indistinto di brivido m'aveva preso.

La certezza di trovarmi in paese nemico; la possibilità di essere
pedinati dalla polizia, scoperti e gettati in un carcere senza nemmeno
il merito d'aver mosso una paglia; l'impresa non ben determinata che ci
attendeva in Roma; il ricordo della famiglia lasciata la quale forse in
quel momento era in tutte le angosce non sapendo dove e come fare di me
ricerca; ciò tutt'assieme dava ai miei pensieri una tristezza
meditabonda alla quale invitava anche la stessa ora tarda della sera ed
il paesaggio che ci si svolgeva innanzi agli occhi, malinconico e
desolante.

Si attraversavano immense praterie che andavano a confondersi a perdita
d'occhio col lontano orizzonte, colline e vallate alternantisi per
interminabili pendii, ma spoglie affatto d'ogni vegetazione e solo
popolate qua e là da mandrie di pecore, di bufali e di cavalli. Non un
arbusto, non un boschetto, non una casa! Il treno correva correva...
passata Civitavecchia, passato anche Palo, ultima fermata del diretto, e
via via Palidoro, Maccarese, Magliana e finalmente Roma!

Roma, termine dei nostri pensieri, meta delle nostre aspirazioni, delle
aspirazioni d'ogni italiano! l'avremo?... chi lo può dire? come
l'avremo?... chi lo sa? ci sono armi? è preparata la popolazione?
insorgeranno?.. e se ci lasciassero soli?... faremo le barricate; e se
ci agguantano?... ci fucileranno, ci impiccheranno come congiurati, come
framassoni!... e la mamma? Questo dolce ricordo che facea capolino fra
l'incertezza di sì tristi presentimenti, mi produsse il senso di
un'angoscia disperata. Guardai i miei compagni: alcuni dormivano, altri
meditavano pur essi, e mi pareva scorgere anche sui loro volti i segni
d'una preoccupazione profonda!

Ma io quando il treno, finalmente rallentando, sostò e udii proferire il
gran nome: Roma! io asciugavo due grosse lagrime!

Alla stazione ci dividemmo senza saluti e commiati come fossimo affatto
sconosciuti l'uno all'altro.

Alla Minerva si convenne fra me e il mio compagno di parlare sempre in
dialetto per il caso che qualche spia origliasse alle porte. Ottima
precauzione, che però corse pericolo di venir guastata fin dalla prima
sera dal carattere impetuosamente istintivo del compagno mio.

Poco dopo aver preso possesso del nostro alloggio, ecco un cameriere
tutto giuggiole e tutto inchini a domandarci ossequiosamente i nostri
riveriti nomi, o meglio ancora, se non c'era d'incomodo, i rispettivi
passaporti. Consegnammo i nostri nomi scritti su di un polizzino, non
essendo il caso di porgere carte da visita; quanto ai passaporti,
rispondemmo che li avremmo consegnati l'indomani, perchè ci scomodava
levarli allora dal fondo dei bauli.

Il cameriere ricevette la carta, mormorò uno strascicato e gentile:
Benissimo! poi avendoci chiesto se desideravamo mangiare, scendemmo
senza altro con lui al restaurant.

Era un salone vastissimo decorato a marmi e stucchi con colonne di
marmo, nicchie e statue; qualche cosa di mezzo fra l'aula accademica e
la chiesa. Un unico candelabro illuminava il vasto ambiente, che
rimaneva quasi tutto in penombra o buio, e davanti al candelabro
sedevano a tavola un prete e un suo giovane allievo. Mangiammo di buon
appetito. Il prete e l'allievo sorbivano un the, e rammento ancora la
strana impressione che ci fece il veder l'allievo, prima di bere e dopo
aver bevuto, fare certi enormi segni di croce, come se avesse avuto da
esorcizzare la bevanda.

Cenando però mi venne un dubbio, che cioè il protrarre al domani la
presentazione dei passaporti potesse dare qualche sospetto; ne feci
motto al mio compagno ed egli pure fu del mio avviso. Perciò, finito
alla meglio il desinare, risalimmo nella stanza e chiamammo il
cameriere.