Testo - "Gli animali alla guerra" Giulio Caprin

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Migliori portafortuna sono i cani che si sono portati in guerra da
casa. Non che possano l'impossibile: garantire dal pericolo, salvare
dalla disgrazia. Ma non è una fortuna avere, in guerra, dove nessuno
può accompagnarci, il compagno più devoto e familiare della pace? E se
la disgrazia deve succedere, sperare che il testimone fedele ritorni,
come una parte ancora viva di noi, ai cuori da cui partimmo.

Si sa che per l'ufficiale di carriera, specie per quello delle armi a
cavallo, il cane è un attributo indispensabile. Per chi non capisce
gli animali sarà soltanto un piccolo lusso di più, ma per chi sa quanto
codesto animale ha di umano, il cane è il confidente migliore nella
vita militare, dove tante volte, nella gran compagnia, ci si sente
anche soli! Perchè superiori e compagni possono essere abbastanza
diversi da noi. Sono quelli che il caso ci ha dati; e poi, quando anche
somigliano agli amici che ci saremmo scelti, mutano troppo presto:
specialmente in guerra, dove, appena stretta un'amicizia, se non è il
nemico che ce la porta via, è un ordine che la trasloca. Ma il cane
resta, compagno d'armi costante e discreto.

Per il cane, che da secoli e secoli accompagna in guerra il padrone e
il suo cavallo, la guerra è sempre una festa: anche la guerra d'oggi
che, bisogna convenirlo, ha i suoi giorni di tedio cupo. Il cane ha
un "morale" di altezza costante; rimane ilare e festoso. Come ruzza
volentieri fra i cavalli, così si mantiene chiassone fra gli autocarri
e le trattrici che ingombrano schiaccianti le strade della guerra
odierna.

Fu così, per ruzzare tra gli autocarri, che la povera Rati - una canina
bianca col musetto rosa e le zampe grosse di cucciola - ne ha avuta
schiacciata una. E i suoi amici non si vergognarono di affliggersi
anche per quella mutilazione canina mentre pur tanti feriti umani
passavano nelle ambulanze.

E poi, si sa, nell'esercito, i cani degli ufficiali superiori godono,
per riflesso, della deferenza a cui hanno diritto i galloni del
padrone. Specialmente se sanno farsi ben volere. Non si creda però
che il cane di un colonnello tenga a distanza il suo simile perchè
non è che il canino di un sottotenente. Cani di superiori e canini di
subalterni scherzano insieme con simpatica confidenza. Fra i Tedeschi
e gli Austriaci no: fra loro chi ha più stellette non parla con chi ne
ha meno se non per dargli degli ordini. Ma fra noi Italiani, e anche
tra i Francesi e gli Inglesi, in guerra gli ufficiali di tutti i gradi
si parlano come uomini e si vogliono bene alla pari anche fra gradi
diversi.

Il che non impedisce che, in servizio, ognuno ritorni al suo posto e
chi deve ubbidire si metta sull'attenti e chi deve comandare comandi.

Buby, per esempio, sentiva benissimo, come cane, di aver per padrone
un generale. Buby era un magnifico danese, grosso e buono come un
vitello. Chiassone quanto gli permetteva la sua corporatura pesante,
viveva in buoni rapporti di amicizia con tutti i cani del vicinato,
senza badare se fossero cani subalterni e magari cani borghesi. Al più
si poteva dire che era un po' viziato perchè, nella sua qualità di
cane di un comandante, c'era chi lo corteggiava; per cui alle volte si
abbandonava a qualche sconvenienza, si capisce di che genere, dove non
avrebbe dovuto.

Ma, per quanto sbarazzino, appena vedeva pronta per uscire l'automobile
di Sua Eccellenza, si ricomponeva tutto con molta gravità. Si trattava
di accompagnare il generale al fronte, in qualche osservatorio, in
giro d'ispezione: Buby sentiva l'importanza della cosa. E ad una prima
chiamata saliva in vettura, e si sedeva sulle zampe di dietro, serio,
immobile, senza guardar più in faccia nessuno. L'ufficiale di ordinanza
che gli sedeva accanto non era più dignitoso di lui. Anche Buby
partecipava alle responsabilità dell'alto Comando.

Rammento una sera che Sua Eccellenza tornò al Comando tardi, stanco,
con gli occhi dolenti. Era avvenuto, quel giorno, uno dei primi
combattimenti sanguinosi del nostro corpo d'armata. Era stato
interrotto da un temporale d'inferno e i risultati ottenuti non
parevano adeguati al sangue sparso. Forse quel giorno, per la prima
volta in vita sua, anche il generale aveva visto dei morti, molti
morti, che erano caduti per un ordine che lui aveva dato. Quel generale
era un vecchio elegante, dalle mani grassoccie e bianche come quelle
di un cardinale.

Quella sera, appena rientrato, chiese dei suoi ufficiali. Chi c'era
si presentò: il generale li guardò ad uno ad uno, come se temesse di
non rivederli tutti dopo quel giorno di battaglia. Si aspettavano che
dicesse qualcosa; si indovinava che era commosso, che avrebbe voluto
aprirsi con qualcheduno. Ma tacque, e licenziati gli ufficiali, riuscì
in giardino a passeggiare solo coi suoi pensieri. E allora chiamò Buby.

- Buby, Buby, qua....

E Buby, che era rimasto in disparte, silenzioso, corse al padrone e si
mise al passo con lui, serio, su e giù per il giardino vuoto, mentre il
cannone rombava ancora nel buio. Capii come un cane possa ricevere dopo
la battaglia le confidenze che un generale non può fare a nessuno, in
silenzio, confidenze che dette ad alta voce sarebbero debolezze.

Così ci confidiamo con voi, ragazzi, noi babbi, che certi giorni - i
giorni neri di tutte le vite - vi chiamiamo per non dirvi nulla, ma vi
guardiamo negli occhi in un certo modo che anche voi ve ne accorgete. E
diventate seri, perchè avete capito che vi si è detto qualche cosa di
segreto e di doloroso che non si oserebbe dire ad alta voce nemmeno a
noi stessi.