Testo - "Cara Speranza" Marchesa Colombi

chiudere e iniziare a digitare
Il nostro ospite ci aveva fatto assaggiare parecchi de' suoi vini di Sicilia; eravamo tutti di buon umore. Il professore ci spiegava come serbasse una specie di venerazione per quella festa, perchè era stata da tempo immemorabile oggetto di culto nella sua famiglia.

Ci narrava di un suo nonno, che aveva accolto, in un Natale remoto, un nemico della sua casa, semplicemente per non respingere chi bussava alla sua porta in quel giorno solenne; ci narrava di elemosine rovinose, che i suoi vecchi avevano fatte con gran danno dei loro interessi, nella stessa solennità e per le stesse ragioni; e descriveva la pompa che metteva sua madre nell'addobbo della casa, che ornava tutta di piante verdi e di fiori, nello scambio dei doni, nel pranzo di Natale, al quale voleva che tutti i membri della famiglia assistessero, qualunque fosse la distanza che dovevano percorrere per arrivarci.

Dovevamo appunto a quel culto tradizionale per una consuetudine di famiglia, il piacere di trovarci là riuniti; perchè ogni anno il professor Navaro si informava degli studenti che non andavano a far Natale alle loro case, e li invitava a passarlo con lui e coi suoi colleghi che, come lui, non avevano famiglia. L'idea che qualcuno pranzasse solo il giorno di Natale lo commoveva come una disgrazia.

Mentre prendevamo il caffè, entrò il servitore ad annunciare che una persona, la quale non aveva voluto dare il suo nome, domandava di parlare al professore. Questi uscì per raggiungere nel salotto il suo visitatore, e lo vedemmo ricomparire dopo pochi minuti.

Però si sarebbe detto che in quel breve tempo fosse stato, non in una camera ben chiusa e calda, ma all'aria rigida di quella serata di dicembre, sotto la neve che fioccava fitta, tanto s'era fatto pallido.

Si rimise a sedere e vedemmo che rabbrividiva tutto.

Bevve due bicchierini di cognac uno sull'altro, come per riscaldarsi, ci domandò cosa si stava dicendo, ma non diede retta alla risposta e non prese parte al discorso.

Era distratto. Stava muto e pensoso e guardava fissa la brage del caminetto, con uno sguardo di ribrezzo, come se fosse stata qualche cosa d'orribile.

Subivamo tutti l'influenza di quell'improvviso cambiamento d'umore, e, dopo aver rallentata la conversazione, abbassata la voce, finimmo per star zitti anche noi, non osando parlare, ed imbarazzati del nostro silenzio.

Ad un tratto il professore ci guardò cogli occhi ancora stralunati, e disse:

- Scusate; vi ho fatti ammutolire colla mia aria tragica. Ho ricevuto dianzi una forte scossa morale. Ho visto un individuo che mi ha ricordato un caso atroce della mia vita.

Quella scusa non era fatta per rimetterci in allegria, e rimanemmo ugualmente impacciati e muti. Egli versò dell'altro cognac in giro, ne bevve appena un sorso, poi si alzò con impeto, e disse risolutamente:

- Volete che vi narri quella storia? Ora ne ho la testa così piena che non saprei parlar d'altro.

Figurarsi se volevamo! il professor Navaro era il più benvoluto ed il più ammirato dei nostri insegnanti. Il racconto d'un fatto della sua vita c'interessava tutti vivamente. E per giunta egli narrava bene, con facilità di parola da vero Siciliano. Ci stringemmo tutti intorno a lui, ardenti di curiosità, ed egli cominciò a parlare coll'accento vibrato e gli occhi luccicanti come se fosse già entrato nel vivo del racconto...