Le stelle di cui il cielo ora è pieno, appunto perchè splendono
perennemente sono un indizio certo della nostra morte. Ma io che le
contemplo mentre compaiono e scompaiono, a volta a volta fra le rade
nuvole naviganti l'azzurro, in aggruppamenti inaspettati e nuovi, sento
scendere sui miei occhi non so qual liquido filtro che mi rende oblioso
così della morte come della vita. Distrattamente ascolto i rumori e le
musiche del bosco, il canto dei rosignoli nell'ombra, il fruscìo dei
giunchi (di seta), le voci umane giù per i campi e nell'isolata casa del
mulinaio, e sento che queste cose non sono fatte per me. Troppo
semplici, troppo serene. Se, vinto, con un lieve sforzo, molto lieve, mi
decidessi ad uscire dalla mia solitudine per partecipare alla festa di
questa chiara notte autunnale, sarei come un orfano il quale conducesse
la propria inconsolabile tristezza, abiti, volto, silenzio, in una
comitiva di gente allegra e felice.
No, certo: non sono fatto per questo. Io vivo l'imperfetta vita delle
ombre. Sono, come le pallide larve, distaccato dal mondo, libero di
muovermi e di vagare dove mi piace, presente in ogni luogo, ed assente
da ogni realtà. Eppure la mia libertà non è che un'illusione di chi
giudica dalle apparenze, e non sa che sono invece inchiodato,
incatenato, prigioniero della mia vita, nel momento stesso in cui essa
si è fermata per sempre. Se preferisco uscire di notte, o mostrarmi là
dove il bosco è più folto, dove il fiume scorre tra le più alte rupi, la
ragione è che io soffro il sole, la luce mi dà un acuto dolore, e temo
sempre di contravvenire ai comandi della natura, di violare una legge
assoluta. La mia stessa voce, quando raramente parlo, è la voce flebile
delle ombre, che sembra giungere da misteriose lontananze, fioco lamento
di sotterraneo o di tomba, confusa voce attraverso soffi di vento,
scrosci di correnti d'acqua, stormire di notturne boscaglie. L'aria è
sempre piena per me, come le desolate lande della tragedia, di una
triste lontana e invisibile musica. Ebbene: un uomo mi ha ucciso
impedendomi di morire quando sarebbe stato facile per me uscire da
questo viottolo angusto e spaziare nell'infinita felicità; quando la
morte sarebbe stata ebrezza e gioia; e tempo, spazio, memoria, più
nulla...
perennemente sono un indizio certo della nostra morte. Ma io che le
contemplo mentre compaiono e scompaiono, a volta a volta fra le rade
nuvole naviganti l'azzurro, in aggruppamenti inaspettati e nuovi, sento
scendere sui miei occhi non so qual liquido filtro che mi rende oblioso
così della morte come della vita. Distrattamente ascolto i rumori e le
musiche del bosco, il canto dei rosignoli nell'ombra, il fruscìo dei
giunchi (di seta), le voci umane giù per i campi e nell'isolata casa del
mulinaio, e sento che queste cose non sono fatte per me. Troppo
semplici, troppo serene. Se, vinto, con un lieve sforzo, molto lieve, mi
decidessi ad uscire dalla mia solitudine per partecipare alla festa di
questa chiara notte autunnale, sarei come un orfano il quale conducesse
la propria inconsolabile tristezza, abiti, volto, silenzio, in una
comitiva di gente allegra e felice.
No, certo: non sono fatto per questo. Io vivo l'imperfetta vita delle
ombre. Sono, come le pallide larve, distaccato dal mondo, libero di
muovermi e di vagare dove mi piace, presente in ogni luogo, ed assente
da ogni realtà. Eppure la mia libertà non è che un'illusione di chi
giudica dalle apparenze, e non sa che sono invece inchiodato,
incatenato, prigioniero della mia vita, nel momento stesso in cui essa
si è fermata per sempre. Se preferisco uscire di notte, o mostrarmi là
dove il bosco è più folto, dove il fiume scorre tra le più alte rupi, la
ragione è che io soffro il sole, la luce mi dà un acuto dolore, e temo
sempre di contravvenire ai comandi della natura, di violare una legge
assoluta. La mia stessa voce, quando raramente parlo, è la voce flebile
delle ombre, che sembra giungere da misteriose lontananze, fioco lamento
di sotterraneo o di tomba, confusa voce attraverso soffi di vento,
scrosci di correnti d'acqua, stormire di notturne boscaglie. L'aria è
sempre piena per me, come le desolate lande della tragedia, di una
triste lontana e invisibile musica. Ebbene: un uomo mi ha ucciso
impedendomi di morire quando sarebbe stato facile per me uscire da
questo viottolo angusto e spaziare nell'infinita felicità; quando la
morte sarebbe stata ebrezza e gioia; e tempo, spazio, memoria, più
nulla...