Testo - "Impressioni d'America" Giuseppe Giacosa

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Alle dieci della mattina il grande bastimento si stacca dal Dock e move
lentamente rasentando i muraglioni bianchi del porto: scricchiola quasi
compresso nella stretta di un ponte girante e procede cauteloso nei
bacini senza dar fumo nè fischi, la macchina inerte, tirato a rimorchio
da un vaporetto a prua, tenuto a segno da un altro vaporetto a poppa.
Nell'ultimo bacino largo e fondo, i rimorchiatori ristanno e si
sciolgono: una scossa, un fischio rauco, un colpo di cannone, qualche
gridolino di donne impaurite ed eccoci al mare. È una giornata chiara e
variabile d'Ottobre; è già piovuto due volte da nuvole fuggenti veloci
verso la terra, ma è vento alto che non tocca l'acqua. Il mare lucente,
ondeggia largo senza rompersi mai. I passeggieri dato una sguardo di
saluto alla malinconica collina dell'Havre, ed un'occhiata
interrogatrice al cielo, scendono a prendere possesso delle cabine e ad
allogarvi le robe, e per un'ora è un trillare incessante e fastidioso di
campanelli elettrici e un correre di su e di giù per le corsie, di
camerieri e cameriere chiamati a collocare e fissare le valigie, a dar
ragione d'ogni minuto arredo della cabina od anche solamente a
mostrarsi, a dire il proprio nome, a pronosticare il tempo e la durata
del viaggio. Poi comincia la sfilata all'ufficio del commissario ed a
quello del maggiordomo. Al commissario, molti passeggieri consegnano
speciali e inutili lettere di raccomandazione; il maggiordomo assegna i
posti a tavola e riceve le iscrizioni per il primo od il secondo
servizio. La sala da pranzo non ci capirebbe tutti ad un tempo (siamo
trecento e nove), si danno dunque due servizi della colazione e due del
desinare. La gente navigata preferisce il secondo che è quello del
comandante.

La prima campana della colazione ci richiama tutti sul ponte soleggiato.
La terra dell'Havre è già bassa ed annebbiata e già vediamo la punta di
Cherbourg. I passeggieri si squadrano a vicenda ed argomentano l'uno
dell'altro la condizione ed il carattere. Rivedo rasserenati e rabboniti
dei visi che avevo notato per crucciosi la sera innanzi a Parigi sul
partire del treno transatlantico. Ma chi cerca posto in un treno
notturno non mostra la sua faccia abituale: la fretta, l'inquietudine,
la diffidenza, l'avversione al prossimo, intorbidano gli sguardi e
contraggono i lineamenti.

Quasi tutti i passeggieri sono muniti di un seggiolone pieghevole che si
affrettano di collocare al riparo dal vento e dal fumo. A chi non lo
possiede di suo ne è offerto uno a nolo, per cinque lire, dalla società
dei camerieri. Quei seggioloni e l'innumerevole quantità di scialli, di
pelliccie, di soprabiti, di libri e d'altri minuti oggetti dell'uso
domestico, sparsi per ogni dove, danno all'alto ponte il piacevole
aspetto di una terrazza aperta sulle immensità oceaniche.

Innanzi di partire, quando volevo tranquillare quella sorda inquietudine
che l'idea di un lungo viaggio sveglia in chi non ne ha fatto mai, mi
dicevo che da Milano a New-York sono in sostanza, venti ore di ferrovia,
fino all'Havre, ed il soggiorno di una breve settimana in un fastoso
albergo galleggiante. Col tempo bello, la vita a bordo, somiglia infatti
a quella dei grandi alberghi cosmopoliti di Nizza e di San Remo, se non
che vi è più ghiotta e copiosa la tavola, più pronto e puntuale il
servizio, più diversa la gente, più rapida la diffusione della cronaca
giornaliera. L'attesa della posta è, a bordo, sostituita da quella
dell'accertata ora solare e del punto. Quando il muggito della sirena
annunzia ai naviganti che il sole è per essi al sommo dell'arco, tutti
correggono l'orologio e subito i buoni calcolatori dalla differenza fra
l'ora di ieri e quella d'oggi, argomentano la strada fatta, e mettono
scommesse che son poi definite sul ripiano della scala, dove il capitano
segna con spilli e banderuole infitti nella carta geografica il punto
preciso raggiunto sul mezzodì e registra più sotto in cifre il cammino
percorso e la distanza che ancora ci separa dall'America. Il primo
giorno le 3200 miglia che ancora ci rimanevano a fare, mi parvero
un'inezia, ma la cifra andò di poi sempre ingrossando in me, via via che
diminuiva sulla carta.

Verso le due pomeridiane, che è l'ora del lunch, poichè in mare si
mangia ogni tre ore, il ponte di sopra è festosissimo. Una folla di
gente sfaccendata, va, viene, guarda, discorre, legge, si lascia andare
al dolce movimento dell'onde e carezzare dalla brezza salata. Passano
lontano isole e promontori: sulla bruna scogliera dell'Inghilterra
s'ergono campanili raggianti al sole; le coste sembrano avvicinarsi
curiose, o retrocedere spaurite, avvivate dalla nostra velocità. Il
tempo è bello, ma un inglese osserva che non incontrammo ancora il
bastimento partito l'altro sabato da New-York, e che già dovrebbe essere
arrivato all'Havre. Qua e là qualche signora sdraiata sul seggiolone ed
impellicciata fino al mento tradisce al viso pallido ed agli occhi
chiusi le prime svogliatezze del mal di mare. Ma l'immobilità e l'aria
viva la ristorano e a poco a poco gli occhi si riaprono e si incarnano
le gote. Fra i passeggieri prevalgono, in numero, gli americani reduci
alla patria poichè corsero l'Europa la primavera e l'estate. Sono intere
famiglie numerose, pompose e rumorose, i giovani e specie le ragazze,
socievoli oltre il nostro costume, i fanciulli adorabili per forza
briosa e sicura, i padri e le madri imperterriti usurpatori ed accaniti
difensori dei migliori posti, incuranti della figliuolanza, finchè
questa si allontana o si apparta in compagnie diverse ed improvvisate,
festosi e verbosi per rapide e fitte domande ad ogni suo ritorno nella
cerchia delle seggiole, dominio famigliare. Giovani e vecchi, gli uomini
pipano di continuo un tabacco che sa di camomilla, e le donne croccano o
succhiano confetti.