Testo - "Top" Adolfo Albertazzi

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Che gli asini camminando più o meno piano per la strada maestra si
provino a prendere ogni viottola che scorgono di qua e là, si
capisce. La strada larga e bianca, precorrente senza limite visibile,
suscita in loro l'idea e il panico dell'infinito; e poichè sanno per
esperienza come da colui che trasportano e che li guida e bastona ci sia
da aspettarsele tutte - e non sarebbe da meravigliare neppur il
proposito, in lui, d'andare all'infinito - essi dalle viottole laterali
han l'illusione o la conoscenza o la speranza di un termine prossimo, e
tentano rivolgersi a quello.

Più difficile è spiegare perchè anche l'asino bennato oppugni a voltar
indietro pur nella più larga e più piana strada. Ecco. Il prudente
auriga tira dalla parte destra fin quasi al limite del fosso, indi tira
a sinistra con tanta energia che la bestia è costretta a piegar contro
la stanga il collo, la testa, la bocca aperta dallo spostamento del
morso, e, per esprimer meglio il suo volere, il padrone rialza e
riabbassa in fretta il randello, sì che la battuta groppa si addossa,
rintronando e dolorando all'altra stanga - e, nossignori, non cede;
piuttosto che cedere l'asino va inesorabilmente nel fosso di sinistra
col biroccino e chi c'è sopra. Perchè? Forse per amor proprio? punto di
onore? dignità personale? In tal caso bisognerebbe supporre a questa
ostinazione, a cocciutaggine così pericolosa, un ragionamento degno d'un
uomo di carattere quale ce n'è pochi, specie al giorno d'oggi. - Ah tu
che mi sfrutti mi hai dunque attaccato al biroccino non per bisogno, ma
- poichè vuoi tornar indietro - solo con l'intenzione di farmi faticare
e di bussarmi? Ebbene, no! neanche se io debba tornare alla dolce
stalla, io non volto! Preferisco pungermi alla siepe, rompermi una
gamba, fiaccarmi l'osso del collo nel baratro. Non volto: no, no e no!

E che tale o simile ragionamento non fosse da escludere lo dimostrerebbe
un fatto: che laggiù, quando sia rimasto in piedi o risorga, l'asino si
mette subito a brucar l'erba della sponda. L'ostinazione cieca non gli
permetterebbe di vederla, l'erba: la stizza invece, che nelle persone
intelligenti non toglie il lume degli occhi e passa presto - appena
hanno avuto sodisfazione -, gli lascia dire tra sè: - Adesso che l'ho
vinta io, sono contento. Mangiamo!

Ma quand'anche questa presunzione intellettiva nei ciuchi fosse
esagerata, l'ostinazione loro sarebbe sempre più agevole da intendere,
psicologicamente, che l'ostinazione dei cavalli.

Qualche anno fa venne di moda il negar l'intelligenza al cavallo, o -
nella reazione ad ogni ammirazione del passato - per contrasto al Buffon
e all'Alfieri, o per consenso al grande - allora - e nuovo Mirbeau, o
per incredulità delle esperienze di Elberfeld, ove dicevano che un certo
cavallino eseguiva esercizi d'aritmetica coi piedi, i quali oggi nemmeno
usan più i poeti agli esercizi della prosodia. E si chiamava stupido il
"più nobile compagno dell'uomo" perchè è ombroso e perchè ha lo sguardo
velato: come se l'adombrare non potesse indicar il prevalere della
facoltà fantastica su la fredda ragione, che è indizio di genialità, e
come se non ci fossero stati grandi uomini, scienziati o poeti, non solo
con velato sguardo, ma con occhi morti del tutto.

Un fenomeno però della razza equina varrebbe meglio a giustificarne i
detrattori: il restio. Quale maggiore stolidezza, se volontaria?
Fermarsi a un tratto senza perchè manifesto; resistere a ogni stimolo, a
ogni esortazione più carezzevole, a ogni più duro castigo: lì, immoto
con la testa china, proprio a mo' degli asini malnati, e talvolta con il
di dietro alzato a springar calci in ricambio delle frustate, dei pugni
su la testa e dei calci nella pancia che l'uomo, per diritto di ragione
e di padronanza, elargisce all'animale, indarno.

Tale pervicacia, a udir il contadino o il birocciaio alle prese con
essa, a udirne, tra le bestemmie e gli oh! e gli uh! e i va là!
gli epiteti che tempestando e infuriando rivolge all'animale suo
(carogna! - vigliacco! o vigliacca! - ignorante! etc), non sarebbe da
giudicare appunto che uno stolido capriccio. Ma la scienza, dopo
parecchi secoli da che si han cavalli restii, scoperse che il fenomeno
non andava e non va chiarito moralmente, e ne accertò la causa
fisiologica e patologica.

Si tratta di un disturbo funzionale, nervoso, psicopatico; di un morboso
potere inibitorio che improvvisamente impedisce l'atto volitivo del
correre. E se è così, nè vi ha dubbio che non sia così, quale passione,
mio Dio!, quale martirio! Altro che pungersi alla siepe per
l'ostinazione d'andar nel fosso! Pensateci. Pur ammettendo che gli
manchi affatto l'intelligenza, non negherete che il cavallo ebbe dalla
natura l'esser generoso. Quanto può, dà. Ora, l'accesso del male a che
drammatico doloroso intimo conflitto lo condanna! Pensate! pensate!...
L'istinto lo porterebbe alla corsa senza freno, al galoppo fin che gli
basti il respiro, e il misero non può più muoversi!; la natura l'ha
creato sensibile ai richiami della voce, al tocco delle redini, al
dolore delle frustate, e deve star lì immoto, inchiodato, a udir il
padrone gridar come una bestia terribile, a ricever le percosse, a
tremar a nervo a nervo, a bagnarsi di sudor freddo, senza voce, senza
maniera di svelar il suo martirio, di chiedere pietà - non posso più
correre! non posso più andare! -; veder davanti a sè aperta, libera, la
strada in cui gli è pur così grato superar i fratelli o seguirli, e aver
addosso, intanto, l'apprensione orrenda di non poter più dar un balzo e
avviarsi: mai più! Un cavallo! Non sarebbe - dite - una pena atroce
quand'anche gli mancasse affatto l'intelligenza? E gli mancasse davvero!
Soffrirebbe meno.