E l'uomo nuovo, con la visione dinanzi agli occhi
di sconfinati orizzonti di gloria, si era trovato di fronte all'uomo
del passato, che vedeva chiudersi per la sua patria quegli orizzonti
medesimi sotto il velo grigio e melanconico del tramonto.
Il generale Buonaparte aveva accusato il Senato Veneto di tradimento
per avere permesso giorni avanti agli Austriaci di occupare Peschiera,
di slealtà per avere dato asilo in Verona al conte di Lilla, di
parzialità colpevole - come egli diceva - per male corrispondere alle
pressanti esigenze di vettovaglie e di carriaggi da parte
dell'esercito francese, di neutralità violata infine in vantaggio dei
nemici suoi, gli Austriaci.
Ora, di tutto questo, Buonaparte aveva dichiarato al vecchio Foscarini
di doverne trarre aspra vendetta per ordine del Direttorio,
incendiando Verona e marciando contro Venezia. Il rappresentante
Veneto, atterrito, era riuscito alla fine a indurre il focoso generale
a più umani consigli ed a salvare Verona, ma più con l'aspetto della
sua desolata canizie che con la virtù della parola, a condizione però
"che le truppe "del generale Massona fossero ammesse in città,
occupassero "i tre ponti sull'Adige, avvertendo che le minime
rimostranze "che si imaginassero di fare i veneti riuscirebbero il
segnale "dell'attacco".
Tra l'incendio e l'occupazione militare non era dubbia la scelta, ed
al Foscarini fu giocoforza di cedere. Duramente Buonaparte aveva
rifiutato al vecchio provveditore perfino il tempo necessario, per
prendere gli ordini dal Senato e lo aveva accomiatato "con i modi che
il vincitore detta leggi al vinto".
Era il principio della fine della Serenissima. All'udire i dolenti
messaggi del Foscarini, l'accolta dei senatori veneti alla Canonica,
pavida, discorde, sfiaccolata, non trovò altro rimedio al male che
spacciare due Savi del Collegio a Verona per assistere il provveditore
in altri colloqui con il generale Buonaparte, quasi che il loro
mandato fosse quello di sorreggere con le dande gli estremi passi del
valetudinario diplomatico e della agonizzante Repubblica.
La fiducia nelle arti della parola e del protocollo rappresentava
ancora, agli occhi dei contemporanei, l'ultima àncora di salvezza,
perchè i tempi di Sebastiano Verniero e di Francesco Morosini erano
trascorsi da un pezzo. Ed i due nuovi eletti in quella tumultuaria
adunanza notturna per implorare mercè al vincitore di Dego, di
Millesimo e del ponte di Lodi, furono Francesco Battagia e Nicolò
Erizzo I. Essi partirono sùbito alla volta del campo francese sotto
Verona, recando seco "40 risme di carta di buona qualità, 12 risme di
carta piccola da lettere lattesina, 2000 penne, 3000 bolini grandi
ed altrettanti piccioli, 36 libbre di cera Spagna, un barilotto di
inchiostro, 6000 fogli di carta imperiale, registri, spaghi e
spaghetti in grande quantità". La burocrazia aulica della
Serenissima, in difetto di soldati e di armi, così provvedeva alla
difesa delle sue città murate e del suo territorio.
A quel tempo, l'esercito veneto si era oramai consunto per vecchiezza.
I lunghi e sfibranti periodi di pace e di neutralità in cui l'inazione
suonava colpa e l'assenteismo politico della Repubblica, prolungata
offesa alla dignità del vecchio e glorioso Stato italico, l'abbandono,
lo scadimento d'ogni istituto, lo scetticismo e l'indifferenza,
avevano siffattamente prostrata la milizia veneziana da imprimere sul
suo volto, un tempo già gagliardo e raggiante per le vittorie d'Italia
e d'Oriente, le rughe più squallide della decrepitezza ed il marchio
più profondo della dissoluzione.
La bella e radiosa visione del monumento a Bartolomeo Colleoni, fiera
ed energica come il suggello di una volontà prepotente, stupenda come
l'annunzio di una vittoria pressochè astratta dall'ordine dei tempi,
grado a grado si era dileguata nell'esercito della Serenissima, come
svanisce un sogno carezzato alla luce di una triste realtà.
Il nerbo degli armati della Serenissima traeva origine da due
provenienze distinte: i mercenari e le cerne. E queste e quelli,
per la comunanza del servizio sul mare, ritraevano un tal carattere
anfibio che imprimeva alla milizia veneta fisionomia ed atteggiamenti
del tutto diversi dalle altre milizie contemporanee.
Queste due fonti si erano nel passato così bene intrecciate assieme,
da dar vita ad un fiume ricco d'acque e poderoso nel quale, in
determinati e non infrequenti periodi della storia, si erano come
trasfuse tutte le tradizioni militari dei Comuni e degli Stati
dell'Italia.
Il mercenarismo rampollava dalle antiche compagnie di ventura e ne
aveva dapprincipio tutto il sapore e tutto lo spirito, considerate le
forme repubblicane della Serenissima e le tendenze della sua società
aristocratica e marinara. Questo spirito, a grado a grado, si era
modificato e quasi plasmato sotto il ferreo stampo fortemente unitario
degli istituti veneziani del Rinascimento; sicchè il mercenarismo,
tratto fuori dal martellare delle passioni partigiane e dall'angusta
cerchia delle passioni cittadine, aveva alla fine assunto in Venezia
una individualità più piena, lineamenti più decisi e sicuri da
organismo di Stato.
Infine la medesima stabilità ed unità degli ordini oligarchici veneti,
l'èsca dei largheggiati premi, il miraggio delle accumulate ricchezze,
il cemento glorioso del sangue prodigato per un vincolo mistico e
positivo insieme - quello della fede e della pubblica economia
rivendicate sotto i fieri colpi del Turco - avevano contribuito ad
imprimere a quel vecchio istituto militare del Trecento una
fisionomia veneta. schiettamente originale, che sembrava quasi fusa
dentro l'orma formidabile del leone di San Marco.
Nel frattempo il periodo eroico della guerra di Cambrai, delle lotte
di Candia e delle campagne del Morosini erano volti al tramonto. La
Serenissima divenuta più sollecita di conservare che di conquistare,
aveva stimato savio consiglio quello di fare più largamente partecipi
de' suoi beni i propri soldati, specie i mercenari dalmati, allo scopo
di meglio stringerseli dattorno con i vincoli della gratitudine e
dell'interesse, con quei legami di amorevolezza che suscitano il
reggimento paterno e la coscienza della solidarietà delle fonti del
comune benessere.
Questo cammino, che sapeva del romano antico, pareva bello e fiorito
ma celava non pochi rovi e non poche spine. La Serenissima, fatta
vegliarda, largheggiò per troppa debolezza in autonomie, in franchigie
e donativi a benefizio de' suoi soldati di mestiere, ed apparecchiò
fatalmente a sè medesima ed alle istituzioni militari quella rovina
che, in altri tempi, aveva annientato il vigore delle colonie
legionarie di Roma. Anzitutto, quella continua e gagliarda corrente di
forze fresche e nuove che, dal littorale dalmata, rifluiva ai dominî
di Terraferma e di Levante per rinsanguare le schiere dei così detti
reggimenti di Oltremarini - levati in origine per servire sulle
navi - cominciò ad inaridire pel tralignare degli ordini feudali in
Dalmazia e pel diffondersi del benessere nelle repubbliche marinare e
nei municipi liberi. Infine, il difetto di stimolo alle audaci
imprese - primo incentivo allo spirito di ventura - e le lunghe paci, lo
asfissiarono e l'uccisero come sotto le distrette di una enorme
camicia da Nesso. Le angustie finanziarie compirono l'opera.
Così le truppe levate per ingaggio tanto Oltremare che in Italia
principiarono a morire a sè medesime. Francesco Morosini già da tempo
aveva avvisata questa lenta ruina, quando per mantenere a numero il
suo esercito del Peloponneso aveva dovuto ricorrere ai rifiuti di
pressocchè tutti i mercati d'uomini d'armi d'Europa ed incettare, coi
Toscani e Lombardi, anche gli Svizzeri, gli Olandesi, i Luneburghesi
ed i Francesi; di guisa che con cosiffatta genia - come egli
disse - corse rischio non già di dettare legge al nemico bensì di
riceverla dai suoi soldati medesimi.
Nel 1781, come risulta dai piedilista, ruoli organici e stanza dei
corpi insieme delle milizie venete redatti dall'inquisitore ai
pubblici rolli, mancavano 654 oltremarini nei presidi di Levante,
353 in quelli di Dalmazia, 263 in quelli del Golfo e 42 infine in
quelli d'Italia. In totale 1312 soldati oltremarini mancanti, su 3449
che dovevano essere presenti alle armi in quell'anno, suddivisi in 99
compagnie ed 11 reggimenti.
In questo intervallo i nobili dalmati - feudatari un tempo, poi
condottieri eroici e devoti delle milizie venete di ventura,
modificate e migliorate nel senso di cui sopra è cenno - si erano
venuti imborghesendo grado a grado. L'antico privilegio loro di
levare e di vestire i propri fanti con le vistose casacche cremisine e
di donarli poscia, come in simbolo di fede ardente e di accesa
devozione alla Serenissima, era degenerato col tempo e diventato un
mercimonio tra le mani venali degli ingaggiatori, dei capi-leva e
degli ingordi racoleurs.
La Serenissima tentò dapprima di ravvivare i sopiti spiriti bellicosi
di quella nobiltà, un po' distratta dalle fortune commerciali della
Repubblica ragusèa, dalle libertà comunali di Spàlato e di Zara e
dalle autonomie di Poglizza, col largire nuovi privilegi, decime,
concessioni e bacili di formento. Ma la prodigalità attizzò alla
fine l'avarizia e non accese i desiderati spiriti di patriottismo,
talchè i deputati et aggionti alla provvigion del dinaro nell'agosto
del 1745 si videro obbligati a porre un freno alla disastrosa ed
infruttuosa corrività della Repubblica verso la nobiltà dalmata;
corrività che minacciava, di rovinare le "camere (tesorerie) di
quelle province, costringendo per questo oggetto a farsi più
abbondanti et frequenti le missioni di pubblico danaro per le esigenze
di quelle parti".
di sconfinati orizzonti di gloria, si era trovato di fronte all'uomo
del passato, che vedeva chiudersi per la sua patria quegli orizzonti
medesimi sotto il velo grigio e melanconico del tramonto.
Il generale Buonaparte aveva accusato il Senato Veneto di tradimento
per avere permesso giorni avanti agli Austriaci di occupare Peschiera,
di slealtà per avere dato asilo in Verona al conte di Lilla, di
parzialità colpevole - come egli diceva - per male corrispondere alle
pressanti esigenze di vettovaglie e di carriaggi da parte
dell'esercito francese, di neutralità violata infine in vantaggio dei
nemici suoi, gli Austriaci.
Ora, di tutto questo, Buonaparte aveva dichiarato al vecchio Foscarini
di doverne trarre aspra vendetta per ordine del Direttorio,
incendiando Verona e marciando contro Venezia. Il rappresentante
Veneto, atterrito, era riuscito alla fine a indurre il focoso generale
a più umani consigli ed a salvare Verona, ma più con l'aspetto della
sua desolata canizie che con la virtù della parola, a condizione però
"che le truppe "del generale Massona fossero ammesse in città,
occupassero "i tre ponti sull'Adige, avvertendo che le minime
rimostranze "che si imaginassero di fare i veneti riuscirebbero il
segnale "dell'attacco".
Tra l'incendio e l'occupazione militare non era dubbia la scelta, ed
al Foscarini fu giocoforza di cedere. Duramente Buonaparte aveva
rifiutato al vecchio provveditore perfino il tempo necessario, per
prendere gli ordini dal Senato e lo aveva accomiatato "con i modi che
il vincitore detta leggi al vinto".
Era il principio della fine della Serenissima. All'udire i dolenti
messaggi del Foscarini, l'accolta dei senatori veneti alla Canonica,
pavida, discorde, sfiaccolata, non trovò altro rimedio al male che
spacciare due Savi del Collegio a Verona per assistere il provveditore
in altri colloqui con il generale Buonaparte, quasi che il loro
mandato fosse quello di sorreggere con le dande gli estremi passi del
valetudinario diplomatico e della agonizzante Repubblica.
La fiducia nelle arti della parola e del protocollo rappresentava
ancora, agli occhi dei contemporanei, l'ultima àncora di salvezza,
perchè i tempi di Sebastiano Verniero e di Francesco Morosini erano
trascorsi da un pezzo. Ed i due nuovi eletti in quella tumultuaria
adunanza notturna per implorare mercè al vincitore di Dego, di
Millesimo e del ponte di Lodi, furono Francesco Battagia e Nicolò
Erizzo I. Essi partirono sùbito alla volta del campo francese sotto
Verona, recando seco "40 risme di carta di buona qualità, 12 risme di
carta piccola da lettere lattesina, 2000 penne, 3000 bolini grandi
ed altrettanti piccioli, 36 libbre di cera Spagna, un barilotto di
inchiostro, 6000 fogli di carta imperiale, registri, spaghi e
spaghetti in grande quantità". La burocrazia aulica della
Serenissima, in difetto di soldati e di armi, così provvedeva alla
difesa delle sue città murate e del suo territorio.
A quel tempo, l'esercito veneto si era oramai consunto per vecchiezza.
I lunghi e sfibranti periodi di pace e di neutralità in cui l'inazione
suonava colpa e l'assenteismo politico della Repubblica, prolungata
offesa alla dignità del vecchio e glorioso Stato italico, l'abbandono,
lo scadimento d'ogni istituto, lo scetticismo e l'indifferenza,
avevano siffattamente prostrata la milizia veneziana da imprimere sul
suo volto, un tempo già gagliardo e raggiante per le vittorie d'Italia
e d'Oriente, le rughe più squallide della decrepitezza ed il marchio
più profondo della dissoluzione.
La bella e radiosa visione del monumento a Bartolomeo Colleoni, fiera
ed energica come il suggello di una volontà prepotente, stupenda come
l'annunzio di una vittoria pressochè astratta dall'ordine dei tempi,
grado a grado si era dileguata nell'esercito della Serenissima, come
svanisce un sogno carezzato alla luce di una triste realtà.
Il nerbo degli armati della Serenissima traeva origine da due
provenienze distinte: i mercenari e le cerne. E queste e quelli,
per la comunanza del servizio sul mare, ritraevano un tal carattere
anfibio che imprimeva alla milizia veneta fisionomia ed atteggiamenti
del tutto diversi dalle altre milizie contemporanee.
Queste due fonti si erano nel passato così bene intrecciate assieme,
da dar vita ad un fiume ricco d'acque e poderoso nel quale, in
determinati e non infrequenti periodi della storia, si erano come
trasfuse tutte le tradizioni militari dei Comuni e degli Stati
dell'Italia.
Il mercenarismo rampollava dalle antiche compagnie di ventura e ne
aveva dapprincipio tutto il sapore e tutto lo spirito, considerate le
forme repubblicane della Serenissima e le tendenze della sua società
aristocratica e marinara. Questo spirito, a grado a grado, si era
modificato e quasi plasmato sotto il ferreo stampo fortemente unitario
degli istituti veneziani del Rinascimento; sicchè il mercenarismo,
tratto fuori dal martellare delle passioni partigiane e dall'angusta
cerchia delle passioni cittadine, aveva alla fine assunto in Venezia
una individualità più piena, lineamenti più decisi e sicuri da
organismo di Stato.
Infine la medesima stabilità ed unità degli ordini oligarchici veneti,
l'èsca dei largheggiati premi, il miraggio delle accumulate ricchezze,
il cemento glorioso del sangue prodigato per un vincolo mistico e
positivo insieme - quello della fede e della pubblica economia
rivendicate sotto i fieri colpi del Turco - avevano contribuito ad
imprimere a quel vecchio istituto militare del Trecento una
fisionomia veneta. schiettamente originale, che sembrava quasi fusa
dentro l'orma formidabile del leone di San Marco.
Nel frattempo il periodo eroico della guerra di Cambrai, delle lotte
di Candia e delle campagne del Morosini erano volti al tramonto. La
Serenissima divenuta più sollecita di conservare che di conquistare,
aveva stimato savio consiglio quello di fare più largamente partecipi
de' suoi beni i propri soldati, specie i mercenari dalmati, allo scopo
di meglio stringerseli dattorno con i vincoli della gratitudine e
dell'interesse, con quei legami di amorevolezza che suscitano il
reggimento paterno e la coscienza della solidarietà delle fonti del
comune benessere.
Questo cammino, che sapeva del romano antico, pareva bello e fiorito
ma celava non pochi rovi e non poche spine. La Serenissima, fatta
vegliarda, largheggiò per troppa debolezza in autonomie, in franchigie
e donativi a benefizio de' suoi soldati di mestiere, ed apparecchiò
fatalmente a sè medesima ed alle istituzioni militari quella rovina
che, in altri tempi, aveva annientato il vigore delle colonie
legionarie di Roma. Anzitutto, quella continua e gagliarda corrente di
forze fresche e nuove che, dal littorale dalmata, rifluiva ai dominî
di Terraferma e di Levante per rinsanguare le schiere dei così detti
reggimenti di Oltremarini - levati in origine per servire sulle
navi - cominciò ad inaridire pel tralignare degli ordini feudali in
Dalmazia e pel diffondersi del benessere nelle repubbliche marinare e
nei municipi liberi. Infine, il difetto di stimolo alle audaci
imprese - primo incentivo allo spirito di ventura - e le lunghe paci, lo
asfissiarono e l'uccisero come sotto le distrette di una enorme
camicia da Nesso. Le angustie finanziarie compirono l'opera.
Così le truppe levate per ingaggio tanto Oltremare che in Italia
principiarono a morire a sè medesime. Francesco Morosini già da tempo
aveva avvisata questa lenta ruina, quando per mantenere a numero il
suo esercito del Peloponneso aveva dovuto ricorrere ai rifiuti di
pressocchè tutti i mercati d'uomini d'armi d'Europa ed incettare, coi
Toscani e Lombardi, anche gli Svizzeri, gli Olandesi, i Luneburghesi
ed i Francesi; di guisa che con cosiffatta genia - come egli
disse - corse rischio non già di dettare legge al nemico bensì di
riceverla dai suoi soldati medesimi.
Nel 1781, come risulta dai piedilista, ruoli organici e stanza dei
corpi insieme delle milizie venete redatti dall'inquisitore ai
pubblici rolli, mancavano 654 oltremarini nei presidi di Levante,
353 in quelli di Dalmazia, 263 in quelli del Golfo e 42 infine in
quelli d'Italia. In totale 1312 soldati oltremarini mancanti, su 3449
che dovevano essere presenti alle armi in quell'anno, suddivisi in 99
compagnie ed 11 reggimenti.
In questo intervallo i nobili dalmati - feudatari un tempo, poi
condottieri eroici e devoti delle milizie venete di ventura,
modificate e migliorate nel senso di cui sopra è cenno - si erano
venuti imborghesendo grado a grado. L'antico privilegio loro di
levare e di vestire i propri fanti con le vistose casacche cremisine e
di donarli poscia, come in simbolo di fede ardente e di accesa
devozione alla Serenissima, era degenerato col tempo e diventato un
mercimonio tra le mani venali degli ingaggiatori, dei capi-leva e
degli ingordi racoleurs.
La Serenissima tentò dapprima di ravvivare i sopiti spiriti bellicosi
di quella nobiltà, un po' distratta dalle fortune commerciali della
Repubblica ragusèa, dalle libertà comunali di Spàlato e di Zara e
dalle autonomie di Poglizza, col largire nuovi privilegi, decime,
concessioni e bacili di formento. Ma la prodigalità attizzò alla
fine l'avarizia e non accese i desiderati spiriti di patriottismo,
talchè i deputati et aggionti alla provvigion del dinaro nell'agosto
del 1745 si videro obbligati a porre un freno alla disastrosa ed
infruttuosa corrività della Repubblica verso la nobiltà dalmata;
corrività che minacciava, di rovinare le "camere (tesorerie) di
quelle province, costringendo per questo oggetto a farsi più
abbondanti et frequenti le missioni di pubblico danaro per le esigenze
di quelle parti".