Testo - "L'Argentina vista come è" Luigi Barzini

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Chi può udire senza commozione profonda il grido che si leva da una nave
carica d'emigranti, nel momento della partenza, quel grido al quale
risponde la moltitudine assiepata sulle banchine, urlo disperato di
mille voci rauche di pianto? Gridano addio! E par che gridino aiuto!...

L'addio! Non c'è cosa più amara e più dolorosa. Tutta l'umana sofferenza
può essere espressa in questa parola: addio! In fondo ad ogni nostro
dolore possiamo trovare sempre un addio: a qualche cosa o a qualcheduno.

Io non dimenticherò mai la triste partenza di questo vapore che mi
trasporta al di là dell'Atlantico; forse perchè anche io, partendo, mi
sento un po' compagno agli emigranti che sono a bordo. E anche perchè
nella noia e nella disillusione dei viaggi vi sono due grandi emozioni,
due sole, alle quali nessuno può sottrarsi: la partenza e il ritorno.


Quando si ode a bordo l'avvertimento: Chi non è passeggiero, a terra!"
comincia un momento di strazio. Pare che soltanto allora chi parte abbia
nettamente il sentimento dell'irreparabile. Si direbbe che vi fosse in
ogni anima questo pensiero: potrei ancora non partire! Ciò dava
coraggio.

Chi non è passeggiero, a terra! - ripetono delle voci indifferenti di
marinai. Scoppiano i pianti fra la povera folla accampata sui ponti; si
annodano abbracci lunghi, violenti, disperati; le facce lacrimanti si
reclinano sulle spalle scosse dai singhiozzi; delle parole interrotte e
affannose s'intrecciano: Ricorda!... Scrivi!... Torna, torna!...

A terra! A terra! - ammoniscono crudelmente i marinai: e comincia per
la passerella la dolorosa processione di chi rimane. Non sono molti.
L'amaro conforto dei saluti non è per tutti. È una folla varia che si
dispone lungo la banchina, con le pallide facce attente alla nave,
aspettando.

Vi è qualche cosa di funebre in questa attesa. Infatti la partenza di un
emigrante per un lontano paese ha un po' della morte. Egli muore alla
sua vita consueta. Muore per i suoi, muore per il suo paese, sparisce
verso l'ignoto. Egli forse pensa vagamente ad un ritorno, è vero; la sua
morte ha una speranza di risurrezione. Ma nel momento del distacco il
turbine del dolore disperde ogni sogno. Egli ha l'occhio perduto e il
viso desolato di chi si trova di fronte all'abisso insondabile di
un'altra vita. Questa morte è peggiore della vera, dell'ultima, in ciò:
che qui vi è la desolazione di chi parte aggiunta alla desolazione di
chi rimane. Questi due dolori di fronte, dalla riva alla nave, si
nutrono l'uno dell'altro fino alla disperazione. Le anime legate
d'affetto sono come specchi che si mandino le immagini: ciò che vi passa
dentro si riflette centuplicato all'infinito.

Tutti tacciono perchè tutti sentono che parlare sarebbe piangere. Solo
qualche voce mormora ogni tanto: coraggio! E dei singhiozzi rispondono.
Un emigrante arriva in ritardo, correndo, seguìto da una donna. Hanno il
volto acceso dalla corsa e tutto bagnato di lacrime. Sul limite
dell'imbarcadero si abbracciano strettamente, senza una parola, mentre i
facchini pronti a ritirare la passerella gridano: Presto! Poi l'uomo si
svincola e si slancia a bordo, come fuggendo. Lo segue lo sguardo
desolato della donna che rimane immobile, stordita. Nessuno bada a
questa scena; il dolore rende egoisti, cioè crudeli; i dolori degli
altri sono spesso di conforto ai proprî.


Nel silenzio si odono i comandi dall'alto della plancia: i fischi dei
segnali trillano degli ordini. Da tutto intorno viene intenso il tuono
della vita, il palpito della città indifferente. I trams elettrici
fuggono rombando lungo la via di circonvallazione e suonano allegramente
le loro campanelle. Il frastuono d'un treno in partenza si spegne nel
tunnel che va a sboccare nella luminosa San Pier d'Arena. Un mondo di
gente passa lontano senza fermarsi, senza volgersi, inconsapevole dei
mille drammi che lì a due passi hanno nella partenza imminente un unico
epilogo. Dalle colline scende il vento fresco e porta gli ultimi profumi
della terra. I giardini non sono mai stati così verdi e belli, così
crudelmente allettevoli. Il colossale Nettuno della villa Doria, guarda
dal folto degli alberi con profondo disdegno il suo regno antico, il
mare; pare che dica: Qui, qui si sta bene! Genova tutta sorride al
sole....

I preparativi fervono. Le grandi braccia lente delle gru hanno posto
nella stiva aperta le ultime casse. Erano bagagli d'emigranti, poveri
bauli di legno grezzo, cesti, vecchi cofani borchiati di ferro che
gemevano sotto la stretta delle funi. La passerella viene ritirata.
Nulla è più fra la terra e la nave. Si ode un comando. Gli argani di
prua si mettono a girare con frastuono: l'àncora sale, esce lentamente
dal mare bagnata e scintillante. Gli ormeggi si allentano. Sotto alla
poppa l'acqua comincia a ribollire, si forma un vortice da cui la spuma
fugge in tumulto spandendosi lontano: l'elica è in moto.

Gli emigranti si accalcano ai parapetti, si arrampicano agli attacchi
delle sartie, lottano per un posto, pallidi, silenziosi, risoluti.

Il piroscafo si sposta: lentamente lentamente scorre lungo la banchina.
La folla muta lo segue passo passo facendo dei segni d'addio. Qualche
fazzoletto sale agli occhi, ma per poco; non c'è tempo di piangere, si
vuol vedere, vedere fino all'ultimo, vedere fino che è possibile: i
momenti sono preziosi. Gli occhi non si distolgono un istante dalla
nave; occhi rassegnati e dolenti, nei quali con l'espressione della
sofferenza vi è tanta dolcezza d'implorazione. Chi soffre rassegnato ha
lo sguardo del vinto che domanda pietà, ed emana da lui tutta la poesia
della sconfitta. Una povera donna solleva sulla testa un bambino che
saluta con tutte e due le manine, ridendo.

Ad un tratto il vortice di spuma diventa tempestoso, l'elica comincia a
pulsare rapidamente facendo vibrare la nave tutta. La terra si scosta.
Allora delle voci si levano, dei pianti mal contenuti scoppiano. Poi,
improvvisamente, dai fianchi del piroscafo si sferra il grido disperato
che stringe il cuore, l'urlo che quasi non sembra più umano: Addio!! E
mille braccia si tendono verso la terra e si agitano quasi nell'inane
sforzo d'un ultimo amplesso.

Addio! risponde la folla già confusa sullo scalo. Sopra di essa
biancheggiano i fazzoletti agitati, e ogni fazzoletto è riconosciuto da
bordo come se fosse un volto, è seguìto fissamente, avidamente. Quel
puntino bianco che sfarfalleggia sulle teste ripete ancora una volta
tutto quel mondo di cose inesprimibili che le anime sanno dirsi quando
il pianto rende muta la bocca.

Ogni cosa sparisce lontano; gli uffici doganali e i docks del ponte
Federico Guglielmo non sembrano più che casette biancheggianti al sole.
Si passa vicino ad una nave-scuola, dalla quale arrivano le allegre
battute d'una marcia militare; dei ragazzi in uniforme marinaresca si
affacciano al parapetto agitando i berretti. Il nostro piroscafo
silenzioso si allontana scivolando sull'acqua calma e serena. Sopra un
carboniere, dei marinai in catena eseguiscono una manovra, e il loro
canto lietamente si spande nella quiete del porto. Si gira il Molo
Vecchio, dietro al quale spunta la foresta delle alberature veliere, un
intreccio folto di sartie, di scale e di pennoni che spicca sull'azzurro
immacolato del cielo; il mare scherza in mille modi sugli scogli intorno
alla lanterna. Allegri squilli di tromba vengono da due navi da guerra
ancorate al Molo Lucedio; dei canti lontani pare che si chiamino. I
gabbiani si rincorrono a fior d'acqua gridando, come per giuoco. Girando
il Molo Giano per uscire dal porto, Genova intera si apre allo sguardo,
vigilata dai forti, incantevole. Vi è per tutto una gioiosa aria di
festa!

Poco a poco ogni cosa fugge all'orizzonte e si annebbia. La faccia della
Patria impallidisce lontano, ma lungamente ancora corrono su di lei
fervide le ultime carezze dello sguardo nostro....