Poichè se ogni arte è condizionata nella libertà del suo contenuto, vi
sono però artisti che nascono e si sviluppano quasi al di sopra della
mentalità comune, violentando, se troppo angusti, i limiti della storia
di cui sono figli, sebbene serbando profondamente conficcate le radici
in quella storia stessa. L'operista italiano, invece, ha, quasi sempre,
una mentalità del tutto immersa, anzi sommersa, nel flutto della
mediocrissima vita che lo circonda. Egli è così un'anima semplice, di
quella semplicità un poco artefatta delle anime popolari, che non appena
venga varcata da noi, ci desta un'antipatia irrimediabile. Certo
nell'arte non vi è progresso, ma vi è progresso nelle condizioni del suo
contenuto. Ponendo il caso d'un uomo che da fanciullo abbia vissuto tra
il popolo e abbia sentito com'esso sente, e che, dopo, esperienze
diverse portarono a conoscere una vita più alta, più ignuda di
pregiudizi e di debolezze, non ci meraviglierà che quest'uomo sorrida
con commiserazione della sua infanzia. Infatti non c'è cosa più erronea
del credere che l'anima popolare sia la più genuina che vi possa essere.
La sua forza di sentire potrà essere, ed è spesso, più violenta della
nostra, ma l'esattezza delle impressioni, la elevatezza del gusto, la
chiarezza del pensiero, cresce in ragione che ci innalziamo e ci
allontaniamo dallo stato confuso e bolso della vita popolare.
Ognuno di noi se proprio da fanciullo non sia stato figlio del popolo,
può avere sperimentato, conoscendo qualche parrucchiere o qualche
tappezziere o penetrando nell'intimità d'una famiglia del popolo, tutto
il misto di grottescamente falso e di ingenuamente vero, che contengono
i sentimenti del volgo e le loro estrinsecazioni. Ora sarà il baleno
d'un concetto larghissimo, che l'ingenuo buon senso sfiora riempiendoci
di stupore; ora sarà la vana ripetizione male a proposito d'un trito
sofisma che ci urta e ci disgusta; ora sarà una intuizione splendida,
quattro o cinque parole, un'osservazione psicologica, un'intonazione, un
arabesco della voce d'uno che canta per i campi, che ci infondono un
vero e proprio brivido estetico; ora sarà la deformazione di non so
quale orribile verso d'uno dei tanti poetucoli italiani retorici e
mentitori, per lo più a scopo di volgari sottintesi carnali, che ci farà
voltare nauseati da un'altra parte.
L'arte popolare o di chi anche a traverso studi relativamente superiori,
si può pur sempre chiamar popolo, presenta queste bellezze e questo
grottesco, questa curiosa mistura di pura semplicità e nitidezza nella
visione ed espressione, e di tronfiezza ridicola. Così assistendo, per
es., ad un'opera di Giuseppe Verdi, è per noi una continua oscillazione
tra l'aere sereno della bellezza e il tanfo opprimente della retorica.
Ma intendiamoci bene sul carattere specialissimo di questa retorica.
Essa è come una retorica iniziale, una retorica delle condizioni in cui
s'è formato il contenuto. Quando tutto l'ambiente storico in cui un
artista si sviluppa, commette un errore comune, è difficile che
quell'artista, se non provvisto di un punto d'appoggio per giudicare, di
richiami critici per verificare, possa eroicamente difendere il proprio
contenuto da quella specie di morbo universale. Onde avviene che si
formano certi schemi di arte, in cui la visione degli artisti vissuti
nello stesso ambiente storico sembra avere un punctum caecum sempre
allo stesso posto. Per esempio, v'è nell'opera italiana un luogo più
comune delle così dette arie della pazzia, scena della maledizione,
scena del riconoscimento, scena d'amore, scena della morte? Però,
superata da noi la noia che c'infligge questa costante retorica di
situazioni, talvolta niente è più bello della melodia che il compositore
trovò per tale situazione trita e ritrita. Al modo stesso, nella
musica religiosa di Bach, la condizione del contenuto essendo
convenzionalissima, le cantate del maestro di Eisenach, eccettuati
alcuni recitativi ed alcuni cori, consistevano sempre in arie e in
duetti in cui il vanerello amore agghindato e incipriato e imparruccato
dell'anima per il suo innamoratissimo padre, era espresso con sempre
nuova eleganza sincera dal compositore, che non sospettava affatto
quanto fosse indecoroso per l'anima e per Dio tenere quel contegno da
Florindo e Rosaura. In questo caso, come nel caso delle situazioni
melodrammatiche dell'opera italiana, noi non possiamo chiamare retorica
la forma musicale (talvolta bellissima se staccata dal contesto col
quale ha relazioni che noi non possiamo sopportare); ma retorica, le
condizioni in cui è sorta tale musica; la quale anche ai contemporanei
parve bellissima e fu da quelli medesimi ben distinta dalla musica
veramente retorica, cioè la vecchia intuizione, il vecchio motivo, la
volgare modulazione ripetuta ormai a sazietà.
E in che cosa, se non in questa sincerità e convenzionalità aventi
ineluttabili ragioni storiche, va cercata la spiegazione di quel fatto
che notava lo Hanslick, che nulla è più cedevole al tempo e alla moda
(cioè alle mutevoli condizioni del superficiale sentimento popolare)
delle forme della musica teatrale? I nostri nonni hanno infatti pianto
alle settecentesche smanie della Vestale colpevole di Spontini, come i
nostri bravi loggioni moderni palpitano e fremono all'eroismo da sartine
e da commessi viaggiatori della Bohème o si commuovono all'apoteosi da
giornale illustrato della mousmè Iris, cortigiana abortita per
ignoranza. E, parimente, i nostri padri vibrarono dinanzi alle
victorughiane idealizzazioni del buffone di corte Rigoletto, come i loro
rispettivi bisnonni erano andati in solluchero alle graziette lascive e
seducenti della Serva che non contenta del possesso carnale d'un vecchio
padrone di provincia, ne vuol sancito il dominio con un bel matrimonio.
Come si vede il fenomeno è vecchio e a forza di nonni e di bisnonni si
potrebbe senza fatica risalire, seguendone le traccie, a Plauto e chissà
quanto più su.
sono però artisti che nascono e si sviluppano quasi al di sopra della
mentalità comune, violentando, se troppo angusti, i limiti della storia
di cui sono figli, sebbene serbando profondamente conficcate le radici
in quella storia stessa. L'operista italiano, invece, ha, quasi sempre,
una mentalità del tutto immersa, anzi sommersa, nel flutto della
mediocrissima vita che lo circonda. Egli è così un'anima semplice, di
quella semplicità un poco artefatta delle anime popolari, che non appena
venga varcata da noi, ci desta un'antipatia irrimediabile. Certo
nell'arte non vi è progresso, ma vi è progresso nelle condizioni del suo
contenuto. Ponendo il caso d'un uomo che da fanciullo abbia vissuto tra
il popolo e abbia sentito com'esso sente, e che, dopo, esperienze
diverse portarono a conoscere una vita più alta, più ignuda di
pregiudizi e di debolezze, non ci meraviglierà che quest'uomo sorrida
con commiserazione della sua infanzia. Infatti non c'è cosa più erronea
del credere che l'anima popolare sia la più genuina che vi possa essere.
La sua forza di sentire potrà essere, ed è spesso, più violenta della
nostra, ma l'esattezza delle impressioni, la elevatezza del gusto, la
chiarezza del pensiero, cresce in ragione che ci innalziamo e ci
allontaniamo dallo stato confuso e bolso della vita popolare.
Ognuno di noi se proprio da fanciullo non sia stato figlio del popolo,
può avere sperimentato, conoscendo qualche parrucchiere o qualche
tappezziere o penetrando nell'intimità d'una famiglia del popolo, tutto
il misto di grottescamente falso e di ingenuamente vero, che contengono
i sentimenti del volgo e le loro estrinsecazioni. Ora sarà il baleno
d'un concetto larghissimo, che l'ingenuo buon senso sfiora riempiendoci
di stupore; ora sarà la vana ripetizione male a proposito d'un trito
sofisma che ci urta e ci disgusta; ora sarà una intuizione splendida,
quattro o cinque parole, un'osservazione psicologica, un'intonazione, un
arabesco della voce d'uno che canta per i campi, che ci infondono un
vero e proprio brivido estetico; ora sarà la deformazione di non so
quale orribile verso d'uno dei tanti poetucoli italiani retorici e
mentitori, per lo più a scopo di volgari sottintesi carnali, che ci farà
voltare nauseati da un'altra parte.
L'arte popolare o di chi anche a traverso studi relativamente superiori,
si può pur sempre chiamar popolo, presenta queste bellezze e questo
grottesco, questa curiosa mistura di pura semplicità e nitidezza nella
visione ed espressione, e di tronfiezza ridicola. Così assistendo, per
es., ad un'opera di Giuseppe Verdi, è per noi una continua oscillazione
tra l'aere sereno della bellezza e il tanfo opprimente della retorica.
Ma intendiamoci bene sul carattere specialissimo di questa retorica.
Essa è come una retorica iniziale, una retorica delle condizioni in cui
s'è formato il contenuto. Quando tutto l'ambiente storico in cui un
artista si sviluppa, commette un errore comune, è difficile che
quell'artista, se non provvisto di un punto d'appoggio per giudicare, di
richiami critici per verificare, possa eroicamente difendere il proprio
contenuto da quella specie di morbo universale. Onde avviene che si
formano certi schemi di arte, in cui la visione degli artisti vissuti
nello stesso ambiente storico sembra avere un punctum caecum sempre
allo stesso posto. Per esempio, v'è nell'opera italiana un luogo più
comune delle così dette arie della pazzia, scena della maledizione,
scena del riconoscimento, scena d'amore, scena della morte? Però,
superata da noi la noia che c'infligge questa costante retorica di
situazioni, talvolta niente è più bello della melodia che il compositore
trovò per tale situazione trita e ritrita. Al modo stesso, nella
musica religiosa di Bach, la condizione del contenuto essendo
convenzionalissima, le cantate del maestro di Eisenach, eccettuati
alcuni recitativi ed alcuni cori, consistevano sempre in arie e in
duetti in cui il vanerello amore agghindato e incipriato e imparruccato
dell'anima per il suo innamoratissimo padre, era espresso con sempre
nuova eleganza sincera dal compositore, che non sospettava affatto
quanto fosse indecoroso per l'anima e per Dio tenere quel contegno da
Florindo e Rosaura. In questo caso, come nel caso delle situazioni
melodrammatiche dell'opera italiana, noi non possiamo chiamare retorica
la forma musicale (talvolta bellissima se staccata dal contesto col
quale ha relazioni che noi non possiamo sopportare); ma retorica, le
condizioni in cui è sorta tale musica; la quale anche ai contemporanei
parve bellissima e fu da quelli medesimi ben distinta dalla musica
veramente retorica, cioè la vecchia intuizione, il vecchio motivo, la
volgare modulazione ripetuta ormai a sazietà.
E in che cosa, se non in questa sincerità e convenzionalità aventi
ineluttabili ragioni storiche, va cercata la spiegazione di quel fatto
che notava lo Hanslick, che nulla è più cedevole al tempo e alla moda
(cioè alle mutevoli condizioni del superficiale sentimento popolare)
delle forme della musica teatrale? I nostri nonni hanno infatti pianto
alle settecentesche smanie della Vestale colpevole di Spontini, come i
nostri bravi loggioni moderni palpitano e fremono all'eroismo da sartine
e da commessi viaggiatori della Bohème o si commuovono all'apoteosi da
giornale illustrato della mousmè Iris, cortigiana abortita per
ignoranza. E, parimente, i nostri padri vibrarono dinanzi alle
victorughiane idealizzazioni del buffone di corte Rigoletto, come i loro
rispettivi bisnonni erano andati in solluchero alle graziette lascive e
seducenti della Serva che non contenta del possesso carnale d'un vecchio
padrone di provincia, ne vuol sancito il dominio con un bel matrimonio.
Come si vede il fenomeno è vecchio e a forza di nonni e di bisnonni si
potrebbe senza fatica risalire, seguendone le traccie, a Plauto e chissà
quanto più su.