Testo - "Ahi, Giacometta, la tua ghirlandella!" Antonio Beltramelli

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Sapevo che la mia signora zia, verso le sette e mezza, era sempre in chiesa. L'ora era adunque propizia. Feci un giro di ispezione per accertarmi se, anche quella sera, aveva seguito il suo costume e, quando non mi rimase dubbio, infilai il mio sacco a spalla, presi la bicicletta e senza rivolgermi, senza guardare nè a destra nè a sinistra, ma solo e diritto dinnanzi a me, infilai le scale e in quattro salti fui nella strada.

Il Borgo dei Cotogni era affollato in quell'ora, ma non feci che inforcare la bicicletta e scivolar via fra uomini e vetture pedalando furiosamente.

In un battibaleno fui alla porta Schiavonìa, attraversai il ponte sul fiume e mi lanciai, in una corsa pazza, per la grande via maestra che costeggiava i colli proseguendo, sempre diritta, fra campi e ville.

Rallentai l'andatura quando riconobbi di essere ormai fuori della zona della mia Tebaide. Scelsi il sentieruccio che correva fra i mucchi della ghiaia e il fosso, come quello più agevole a percorrersi in bicicletta; mi levai sul torso; l'anima mia ritornò in comunione con le cose del mondo.

Mancavano ancora sette chilometri prima di arrivare alla città più vicina e, benchè la luce si spengesse sempre più di secondo in secondo, non provavo ansietà di arrivare.

Ormai me ne andavo per la terra... ma dove?... ma verso quale meta?... Non lo sapevo; non m'importava saperlo. Affidavo me stesso al destino. Il primo vento che passa mi porterà al nord o al sud; la prima corrente mi trascinerà dove vuole. Ciò che sarà di me, sarà sempre bene.

Perchè accorarsi dietro il mistero dei giorni? Io seguivo il mio istinto che mi conduceva verso l'ignoto; immaginando tuttavia che l'ignoto sarebbe stato sempre più lontano, benchè, in realtà, fosse in me e nell'irraggiungibile. Ma la dolce tristezza di partire e di ripartire era già padrona dello spirito mio fin da quel tempo; l'amarezza ineffabile di rifarsi sempre da capo, di soffrire ancora per ancora sperare nella gioia, io la conoscevo fin da quei giorni remoti ormai e inabissati nell'ombra che dovrà inghiottirmi.

Io sapevo fin da allora che il mio destino segnato era la solitudine perchè ciò che agli altri era pace, riusciva tormento al mio spirito e ciò che i miei simili sognavano come un confine desiderato, appariva agli occhi miei come una insoffribile catena.

Io dovevo partire e ripartire; essere il pellegrino di tutti i soli; il pastore che appare un attimo per una strada remota, con la sua stella, dietro una bianca gregge di sogni.

Questa era la mia innamorata malinconia; questo il cuor mio di passante; questa l'ebbra canzone e l'elegia de' miei giorni.

Mi intenderà forse chi ha ascoltato, come io ascoltavo ogni notte, fanciullo, il rombo di un treno perdersi nella remota distanza fino al confine della nostalgia e più in là della nostalgia; mi intenderà chi ha avuto sempre una nomade speranza in fondo al suo sistemato cuore e con quella ha riposato, sognando, il giorno in cui la vita gli è apparsa più vana e monotona e gli uomini sedentarî più insopportabili; e meglio mi intenderà ancora colui che sente morire nella quotidiana povertà dei giorni, ogni poesia: e sogna e spera e inutilmente cerca la nuova parola di Dio, il nuovo rito dell'amore, la freschezza di una nuova acqua fontana che scenda fra le genti abbrutite e angosciate, come una purificazione.

Costoro m'intenderanno quando ci sarà dato incontrarci in un silenzio propizio; soli costoro che sono i poeti del mondo.