Testo - "La carità del prossimo" Vittorio Bersezio

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Siamo in una stanzaccia ampia, alta, nuda, illuminata da un lucernario
di vetro a mezzo il soffitto, colle pareti grigiastre tappezzate di
quadri abbozzati, di braccia e di gambe di gesso, di pipe e di
ragnateli: in una parola, lo studio e l'abitazione di un pittore. Non
occorre dire che ci troviamo sotto le tegole del tetto, al di sopra di
quattro piani d'una gran casona, alveare umano che alberga una
quantità di famiglie.

Questo studio è anche la dimora del pittore - che sto per
presentarvi - e della sua famiglia; poichè il nostro eroe, per dirvela
ad un tratto, possiede un gran buon cuore, buon umore da venderne,
poco coraggio, non troppo ingegno, povere fortune, una moglie
borbottona e quattro bimbi.

I misteri famigliari sono nascosti agli occhi dei profani che
penetrano nello studio, da un lungo paravento, di dietro il quale
suonano quasi senza intermittenza grida e pianti di bambini, rampogne
ed impazienti esclamazioni della madre, e fanno di quando in quando
irrefrenabile sortita i tre più grandicelli ragazzi a cavallo del
bastone del papà, dell'ombrello della mamma e dell'appoggiamano per
dipingere.

Al momento in cui vi prego di penetrar meco nello stanzone del
pittore, le fortune di Antonio Vanardi - questo è il nome
dell'artista - sono più povere che mai. È pieno di debiti; da ogni
parte da cui si volga corre rischio di vedere la faccia corrucciata di
un creditore che non può pagare; e più corrucciato e più inesorabile
di tutti fra questi creditori lì il padrone di casa, a cui Vanardi
deve due semestri d'affitto, e non sa dove battere la testa per avere
di che pagarlo.

Questo padrone di casa - come tutti quelli delle commedie, dei drammi e
dei romanzi - è un uomo che non conosce guari dove stia di casa la
pietà, e non capisce che un'attinenza verso i suoi locatari: riceverne
danaro per la pigione a tempo debito e scrivere loro una buona
quietanza colla sua buona firma sotto, nella sua scrittura commerciale
che finisce sempre l'ultima lettera con un ghirigoro pieno di
eleganza: Fiorenzo Marone.

Benchè egli abbia questo nome illustre, non lo crediate già
discendente dal celebre poeta mantovano. Di Virgilio il brav'uomo non
aveva inteso mai nemmeno a parlare, ed i versi non sapeva che razza di
bestie si fossero.

To', poichè il signor Marone mi è capitato qui sotto il becco della
penna, ci stia un poco; ed abbiate pazienza, cari lettori, mentr'io mi
indugio un tantino a schizzarvene il ritratto alla sfuggita.

È un uomo oltre i sessanta, grande, grosso, a faccia di villano e
maniere uguali, a spalle larghe, naso lungo, occhi di gatto, denti di
rosicchiante, mento quadrato, mani grosse, piedi da lacchè, sorriso
falso, fronte stretta e coscienza Dio sa come. Vuole dare alla sua
fisonomia un aspetto d'umiltà e di bonarietà che stona maledettamente
colla grossezza delle sue forme; mette la sordina alla sua voce da
boattiere, e non guarda mai negli occhi la persona a cui parla.

La sua storia è contata in quattro parole. È figliuolo d'un villano
che nei primi anni del secolo veniva in Torino i giorni di mercato,
spingendosi innanzi un asinello, a vendere formaggioli sulla piazza
delle erbe, che ora è piazza del Palazzo di Città. Fiorenzo,
sbarazzino di due lustri incirca, l'accompagnava trottando coi piè
nudi, una bacchetta in mano, dando il cis-va-là e le botte al
somarello restio. Più tardi successe egli, fatto giovinotto, nel
commercio paterno. Seppe governare così bene e rammontare colla
parsimonia, che era un'avarizia, soldo sopra soldo, che un bel dì si
trovò a capo d'un certo capitale, colla buona voglia di moltiplicarlo
il più possibile e coll'accortezza necessaria per riuscire in questa
operazione aritmetica, per cui si sentiva una vera vocazione datagli
dalla natura.

Su quella medesima piazza che lo aveva visto compagno all'asinello
paterno, Fiorenzo apriva una bottega da spacciarvi formaggi, ed
andatagli prospera la fortuna accresceva in poco tempo il suo fondaco
e i suoi guadagni; finchè, sopraggiunta la guerra del quarantotto,
egli pigliava l'impresa di provvedere di formaggi l'esercito
piemontese, ed ingrassava così bene di quello che non mangiarono i
nostri soldati, che rimetteva ad altri la bottega, comprava case,
tenute, e cartelle del debito pubblico, e si ritirava a viverla in
panciolle, ricco di più dozzine di mila lire di rendita.

Egli è solo, celibe, senza parenti. Fa il pinzocchero; non dà mai un
soldo ad un povero, ma regala alla parrocchia di quando in quando od
una lampada d'argento indorato, od una corona per la Madonna con gemme
false, e nei giorni solenni, per esempio la settimana santa, si mette
sulla porta della chiesa colla tasca in mano a gridare a chi va e
viene: pel santo sepolcro! È avaro come una tigna, senza cuore, e
non ama che il denaro: nessuno lo stima, meno ancora gli si vuol bene;
e tutti gli fanno tanto di cappello.

Ebbene gli era a codestui che il povero Vanardi doveva duecento
cinquanta lire di pigione. E meno male fosse stato quello il solo suo
debito! Ma il pizzicagnolo della cantonata non voleva più vendergli nè
lardo nè burro, nè niente del tutto, se non gli pagava le sessanta
lire di cui andava in credito; ma il panattiere gli rompeva la testa
per averne finalmente i due napoleoni d'oro (in quel tempo v'erano
ancora i napoleoni) che gli si dovevano; ma il venditore di legna e
carbone aveva protestato che se entro una settimana non lo si
soddisfacesse dei 14 franchi ed 80 centesimi ch'egli domandava pei
combustibili somministrati, sarebbe andato senz'altro dal giudice. E
lascio stare il macellaio, il venditore di vino al minuto e tutti gli
altri creditori, che se volessi annoverarli un per uno farei una
rassegna lunga e noiosa, come quella degli eroi combattenti in
un'epopea che si rispetta.