Testo - "La testa della vipera" Vittorio Bersezio

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Egli veniva a studiare da un paesello della provincia dove stava
aspettandolo una famiglia, che fondava in lui le sue speranze, un
padre ormai vecchio, una madre che lo idolatrava; e il pensiero che
poteva rimaner morto lì adesso, e non più rivedere la casa natìa,
nessuno de' suoi cari, gli stringeva il cuore, gli affannava il
respiro, gli faceva tremare i nervi, gli metteva sulle guancie un
pallore mortale. Emilio Lograve, colla sua solita carnagione di
morticino, non mostrava la menoma alterazione in viso, aveva una
mirabile sicurezza di atti, di voce, di parole, ed aveva lui, a sua
volta, uno scherno sprezzatore nel sogghigno e nello sguardo. La sorte
favorì l'avversario di Emilio col vantaggio di sparare il primo. Posti
di fronte i duellanti e dato il segnale, Emilio non sentì neppure il
fischio della palla, così passò essa lontana dalle orecchie di lui.
Fissando bene in volto l'avversario ed abbassando lentamente la
pistola, Lograve disse con accento pieno di sarcasmo:

- Lo schifoso mostricciuolo, caricatura di scimiotto, ha la tua vita
nelle mani... e te la regala. Mi contenterò di bucarti il cappello due
dita al di sopra della testa.

Sparò, e il cappello del giovane rotolò per terra. I padrini che lo
raccattarono, mentre il padrone di esso rimaneva come sbalordito,
videro con meraviglia come la palla avesse colpito esattamente al
punto che il tiratore aveva detto.

- E ora, disse Emilio con superbo disdegno, se al signore piace,
ricominciamo pure.

Tutti d'accordo i padrini determinarono che non si aveva da continuare
altrimenti. Emilio fece un lieve cenno di saluto col capo, e
s'allontanò fieramente, senza volere stringere la mano all'avversario.

Di quel duello se ne fece un gran discorrere nella università e per
tutta la città. Il giovane Lograve fu d'allora temuto, rispettato, non
più amato di prima. In casa Danzàno, di quel fatto il padre ne fu
assai dispiacente, e ne mosse severe rampogne a Cesare, il quale non
nascondeva la sua ammirazione pel cugino; al figlioccio pure egli
espresse la sua disapprovazione; ma Emilio con tanta umiltà seppe
rispondere che, fatto segno a continui dispregi, aveva resistito e
tollerato fino che aveva potuto, lasciando persino offendere la sua
dignità personale, ma che, giunte le cose a tal punto che il tacere
più oltre sarebbe stato viltà, egli aveva sentito che doveva a sè
stesso e a' suoi congiunti medesimi di farsi rispettare, che il
padrino finì per dargli ragione. Matilde non partecipava gli
entusiasmi del fratello per quel sornione del cugino; ella scuoteva il
suo bel capo riccioluto e non trovava che quello di sapere ammazzare
freddamente altrui fosse un merito da compensare tutti i difetti
fisici e morali ch'essa credeva notare in Emilio. La sorella di Cesare
contava allora quindici anni ed erasi fatta ormai una giovinetta più
bella ancora e piacente di quanto fosse stata da bambina: era di una
mitezza d'animo e di una bontà di cuore davvero straordinarie: non
poteva vedere a soffrire nessuno, avrebbe voluto sollevare ogni
dolore, cambiare a tutti in gioja il tormento, avesse dovuto assumersi
essa quest'ultimo: aborriva necessariamente i prepotenti, i crudeli, i
maligni, i superbi.