Testo - "Un genio sconosciuto" Vittorio Bersezio

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Dunque gli è in un villaggio, - in una remota regione - che l'ho
incontrato.

Un mio nobile amico ha colà una gran tenuta intorno ad un'antica e
vasta casona, che in paese chiamasi il castello, dove si conservano
da tempi lontani, tradizioni rispettatissime d'una gentilezza ospitale
senza eccezione.

Il paese è vicino alle montagne; un contrafforte delle Alpi allunga
nella pianura le sue radici, a variare di collinette e di valloncini
l'amenità dell'imboschito terreno; intorno all'antico palazzo si stende
un giardino abbastanza vasto per potersi insuperbire del titolo di
parco.

Una vegetazione ricca, fresca e feconda veste le chine dei colli
con albereti leggiadri alla vista, e porge, anche contro l'insolente
saettare del sole di mezzogiorno, gradevoli ripari d'ombra, rallegrati
dal venticello della montagna. Al piede di quella collina, su cui
il castello innalza le sue muraglie annerite, il villaggio - povero
assembramento di casipole, che somigliano a capanne - si sdraia,
direi quasi timidamente, e par che cerchi nascondere i suoi tetti, la
maggior parte di paglia, alcuni di lastre di pietra, sotto le fronzute
chiome di castagni e di noci, che crescono e s'innalzano a mirabili
proporzioni da ogni orto, da ogni praticello.

È un cantuccio riposto, dove non penetrano le passioni e le gare degli
uomini raccolti nelle agglomerazioni cittadine e spronati al male
dall'interesse. Là non c'è strada di passaggio, non c'è commercio,
non c'è industria, non ci sono caffè, non ci sono giornali. Un ramo
assecchito di quercia indica una misera osteriuccia, composta di una
sola stanzona a piano terreno, la quale vede la sua lunga tavola zoppa
e le sue panche disoccupate tutta la settimana, per aspettare qualche
avventore le domeniche.

Quando tutto sossopra è il mondo, appena se colà ne arriva debolmente
un'eco incerta e paurosa.

In mezzo a questo sfoggio di vegetazione, spicca ancora per più
fronzuta ricchezza il bosco del parco, in cui, sul culmine della
collina, si drizza al cielo una fila di pini giganteschi, che hanno
dovuto vedere molte generazioni d'uomini nascere e morire, e che
coprono il terreno d'una oscura ombra solenne.

Il nobile padrone del castello verso gli abitanti del villaggio è
cortese, generoso, caritatevole. Li ama e n'è riamato pei beneficii
ricevuti, per la speranza di nuovi ch'egli è sempre pronto a rendere,
per una specie d'orgoglio che sì distinta persona appartenga al paese
e vi dimori la maggior parte dell'anno.

I cancelli del parco sono sempre aperti e dì e notte, tanto che,
irrugginiti nei cardini, male si acconcerebbero oramai ad essere
chiusi. I paesani vanno e vengono, con una libertà che non esclude il
rispetto al padrone: e quando questi passeggia, ne trova sempre alcuni
giù pei suoi viali, e ne viene salutato con ossequiosa famigliarità, a
cui egli risponde lietamente accennando col capo e chiamando ciascuno
col suo nome o nomignolo.

Sotto le ombre di quell'antichissimo parco si dànno appuntamento
giovani coppie innamorate, per discorrere del loro futuro matrimonio;
colà accorrono vecchierelle e ragazzi a raccogliere i rami secchi,
con un fastello dei quali scendono al loro tugurio a cuocere la cena
della famiglia. Alcune volte qualche tristarello sbaglia, e invece
della legna secca ci viene tagliando bellamente dei rami in piena
vitalità e arboscelli di buona cresciuta, il che, quando gli accade di
accorgersene, sdegna non poco il proprietario.