Alla sera dello stesso giorno ci trovammo in un piccolo villaggio ai piedi della montagna, dove esisteva un'osteria insperata e miracolosa, alla quale domandammo alloggio e cena. O santa ospitalità, io ti benedico e ti esalto anche quando sei vendereccia e mungi la borsa ai pellegrini; anche quando imbandisci loro non altro che pane secco, pomi di terra e cacio pecorino; anche quando li metti a giacere sopra letti di equivoca nettezza e di durizia incontrastabile, esigendo nondimeno il prezzo che valgono i delicati mangiari e le morbide piume. Un tale trattamento è preferibile pur sempre al digiuno e alla stazione sotto la cappa dei cielo. Fortunatamente che vicino al male si trova il bene, e l'assioma si manifestò vero per la millionesima volta. Noi avemmo un compenso al nostro disagio. Mentre stavamo in cucina affrontando il gramo pasto, e pensando al giaciglio ancor più gramo da affrontarsi dappoi, ecco nella camera attigua un violino e un contrabasso che principiano a stridere confusamente colla buona intenzione di montarsi al medesimo diapason. Erano come due amici che gridano e contrastano più in apparenza che in sostanza, per fare quindi la pace e camminare d'accordo nella stessa faccenda. A questo miagolio disarmonioso tenne dietro una monferina tutta brìo da mettere in gongolo un piagnone, e snodare le gambe d'un paralitico. Potenza degli Dei, sarebbe mai vero che qui succede una festa da ballo? Era vero come il magro pasto che avevamo finito, e come il duro letto che ci aspettava. Noi balzammo in piedi, e il passare dalla cucina al teatro delle danze fu un volo. Quattro coppie di ballerini erano già in moto, e il sesso forte sgambettava e faceva salti da dare il capo nel solajo. Altri giovinetti e altre forosette sopraggiungevano mano mano finchè la camera fu piena. Quel giorno si era fatto uno sposalizio, e l'oste aveva prestato il locale per la celebrazione di una festa in onore di Tersicore montanina. I due orfei stavano sopra l'eminenza di una tavola collocata in un angolo, e di là diffondevano torrenti d'armonia, frase che io tolgo in prestito da una gazzetta teatrale. Colui che dava vita al violino era il sarto del villaggio; l'animatore del contrabasso era il sacristano della parrocchia, due genj sorprendenti, due personaggi meravigliosi che sapevano unire i talenti più disparati. Voi che ridete, trovatemi voi due uomini che trattano gli strumenti di Sivori e di Bottesini colla stessa disinvoltura con cui tirano l'ago e accendono le candele. Noi pigliammo parte al divertimento con una lena straordinaria in chi si è arrampicato tutto il giorno su pei monti. Ma la gioventù non sente fatica quando si tratta di ballare. Quell'idea di stringere la mano ad una fanciulla, di allacciarla mediocramente ai fianchi, di condurla in giro, e di specchiarsi nel suo visetto, è un potente rimedio contro ogni stanchezza. Ma qui non erano visetti pallidi e delicati che miravamo, nè personcine smilze e fragili che cingevamo, come succede nei balli sontuosi e profumati delle città. Erano pezzi di fanciulle rigogliose e massiccie, coi volti parte brunotti e parte impastati di rosa e latte, cogli occhi neri scintillanti, piene tutte di floridezza e di vigore, tipi insomma della bellezza alpigiana. Questo era per noi un'attraente novità, che aggiunta alla fortuna di lasciar vedovo per molte ore il nostro letto ci rendeva al sommo contenti. Noi ballammo lungamente e con tutte quelle care napee, compresa la bella sposa, che non faceva smorfie nè ritrosìe vere o affettate, ma che palesava una schietta letizia, velata alquanto dalle sue commozioni misteriose, e dal contegno pudibondo di chi è fanciulla per l'ultimo giorno. Una sorella di lei era per me la regina della festa, e aveva la preferenza nelle mie attenzioni e ne' miei omaggi di galanteria. Io le custodiva il posto da sedersi, e con premura la serviva di birra, il solo genere di rinfreschi circolanti nella sala da ballo. In fede mia quella ragazza mi avrebbe fatto fare pazzie, quando avessi continuato a vederla per molti giorni. Era fiera ed imponente come Diana, della quale aveva un poco i gusti e le abitudini silvestri. Tuttavia non mancava di mansuetudine, e rideva graziosamente mostrando un tesoro di denti bianchissimi, e facendo due pozzette che nulla di più vezzoso. Aveva nome Bettina, e ballava la forlana che era un incanto. Il mio compagno non si divertì meno di me, e inoltre come pittore e mezzo poeta ebbe delle idee e delle inspirazioni che a me non vennero. Quella rustica camera illuminata da quattro candele di sego, quel fermento dei giovani ballerini, quella lieta tranquillità dei vecchi spettatori, quelle voci di allegria miste ai suoni di quell'orchestra singolare, gli facevano l'effetto di un quadro animato di Van-Dick o di Rembrand. Io ebbi invece dei momenti di raccoglimento per fantasticare intorno ad un vecchio vestito di abiti signorili, ma logori e macchiati fino all'indecenza, che tutti chiamavano il signor conte, che mostrava infatti una fisionomia e modi distinti, che aveva ballato due volte con molta degnazione e allegramente come un giovinetto. Per mancanza di agio, di motivi sufficienti, e di persone di confidenza per farmi fare la sua biografia, rimasi per allora colla mia curiosità in corpo. Il divertimento durò fin oltre la mezzanotte, e quindi ognuno se ne andò a casa sua. Una camera qualunque, dove si è fatta una festa da ballo, appena rimane deserta, fa male all'immaginazione, ed inspira tristi e filosofici pensieri. Io stetti un poco sulla soglia in atteggiamento di meditazione a guardare quella camera vuota e silenziosa, che un momento prima echeggiava di suoni, ed era il campo di tanta gioja rumorosa. Fu allora che principiai ad accorgermi della fugacità e insufficienza dei piaceri umani, e mi sentii alquanto sconfortato. Ah, non è a ventidue anni che si fanno di queste gravi e barbute riflessioni. In gioventù quando un piacere fugge, ne intravediamo un altro nel domani, e ci consoliamo. La vera cagione del mio sconforto era Bettina, che non avrei più veduta, e che mi andava girando nella fantasia.
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