Testo - "Novelle e riviste drammatiche" Arrigo Boito

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L'epoca di questo fatto ci è ignota; il paese è la Spagna.

Un cavallo corre furiosamente per campi deserti, un cavaliere lo
sprona, nero l'uno, nero l'altro; ravvolti nelle pieghe d'un immenso
mantello, sembrano una nuvola d'uragano che voli, radendo la terra,
col fulmine in grembo. Il cavaliere nasconde la sua faccia in un ampio
cappuccio. Sotto quella tenebrosa coperta si possono supporre tutte le
schiatte umane di tutti i tempi, lo spagnuolo, il saraceno, l'hidalgo;
la corazza di ferro del quattrocento, il giustacuore di cuoio del
cinquecento, la giubba di velluto del seicento vi si potrebbero
parimenti celare. Quel fosco mantello è una larva che maschera un uomo
e un secolo. Alla oscurità delle vesti, la vertigine della corsa
s'aggiunge per fare più inafferrabile ancora quel mistero volante.

Veduto da lungi, il cavallo disegna nel vuoto colla curva delle zampe
balzanti un arco d'aereo ponte che si ripete sterminatamente per la
campagna. Lo scalpito metallico de' ferri scande sul terreno un ritmo
stringato e preciso come i trochei di Pindaro. Quel cavallo ha il volo
e il metro dell'ode. I pioppi sfilano in processione sotto gli occhi
del cavaliero e le loro fronde, smosse dalla brezza del vespro,
rendono suono d'applausi lontani.

Chi è quel fuggiasco? In che secolo vibrarono i palpiti di quella
corsa? nel grande oceano delle ore quali furono i minuti marcati da
quel galoppo furente?

A che giova saper la cifra del tempo!?

Il cuore non muta, la terra non si trasforma per variar di secoli e di
storia. Regni in Granata l'Abenceragio o Filippo II, domini sulla Spagna
intera il fanatismo del turbante o della croce, vigili sul trono di
Madrid il genio di Carlo V o vi dorma l'idiotismo di Carlo II, che
importa ciò al trovator di romanze e al monte dell'Estremadura? L'uno
canterà sempre le sue albe sotto il terrazzo della dama sua, l'altro
coronerà sempre di fiori la cima delle sue antiche palme. Ciò solo che
sta fra l'uomo e la natura appar mutabile: leggi, costumi, scienze. Un
divino impulso spinge codeste labili forme verso un perenne moto
d'ascensione; ma né le sante virtù del cuore ponno farsi più sante, né
le belle virtù del creato ponno farsi più belle.

La storia che raccontiamo è l'eterna storia dell'amore nell'eterno
paese della poesia; non mettiamo date all'eternità.

Il cavallo non s'arresta, non s'allenta mai. Tutte le fiumane di Leone
e di Castiglia passarono già sotto il suo volo; d'un balzo varca
l'Esla, d'un altro balzo l'Orbigo, d'un altro balzo la Duera; pure,
giunto presso gli orli della Pisurga, esita, ma l'uomo che lo cavalca,
implacabile, feroce, gli conficca gli sproni ne' fianchi, alcune
goccie di sangue cadono sulla riva, il puledro si dibatte fra le
ginocchia del cavaliero, spicca un salto portentoso, e la Pisurga è
varcata ed è ripresa la fuga, e passa Valadolid e passa Zamora e si
sprofonda nelle più selvaggie regioni dell'Estremadura. La linea del
suo viaggio parte da Salamanca e va alla montagna. Ogni suo sbalzo
divora dieci cubiti di terreno, la sua unghia ferrata ripete sul suolo
quel gesto nervoso che fa la mano di chi sfoglia rapidamente un libro
e getta pagina su pagina. Così quel cavallo scaglia dietro di sé
trionfalmente le leghe percorse.

Il cavaliere si volge con orgogliosa movenza verso la propria ombra
che il sole tramontando profila per terra; la vede disegnarsi lunga
lunga e incurvarsi leggiera in un vano del colle, simile alle figure
bizantine delle alte cupole orientali. Davanti ogni croce che incontra
s'inchina devoto fino a toccar le briglie col capo. E viaggia. Senza
questi segni manifesti di adorazione cattolica, ei si direbbe un evaso
dai roghi del Sant'Ufficio che provò già i primi lambimenti del fuoco.

La notte sale sulla montagna e il bruno cavallo con essa. Le due
Castiglie s'addormentano nel buio senza neanche un auto-da-fé per
fiaccola notturna.

Un soffio di vento fa cadere il cappuccio sulle spalle del cavaliero,
e il cavaliero schiude il suo volto alla limpidezza del cielo. È un
giovanetto bello di bellezza ideale, biondo come un bambino e
abbronzito come un guerriero. Gli arcangeli che pellegrinavano sulle
sabbie della Palestina ai primi anni di Cristo, dovevano risalire
l'azzurro abbronziti così. Ed egli aveva dell'arcangelo anche la vaga
età, come la ideava Murillo, errante fra i quindici e i dieciott'anni.
Al pudico ceruleo degli occhi si avrebbe detto quindici, al fiero
congiungimento delle labbra si avrebbe detto dieciotto. Egli correva
ancora, benché il sentiero salisse erto e selvoso.

La notte s'avanzava e il bel cavaliero tornava a nascondere il suo
viso nella folta penombra, il suo viso apparso come meteora, un
istante, fra i fuggenti riverberi del crepuscolo. Giunto a una più
erta salita, scende di cavallo e cammina. Alla foga quasi paurosa è
succeduta una più paurosa lentezza. Il giovanetto fa passi radi, brevi
e tremebondi; il suo cavallo affranto lo segue.