Testo - "La famiglia Bonifazio" Antonio Caccianiga

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Il capitano aveva ereditato dalla sua famiglia parecchie buone terre ed
una bella villa signorile, nello stesso villaggio del maestro, vicino a
Treviso, nella pianura lodata fino dai tempi antichi che ha per
orizzonte le cime nevose delle Alpi, e una verde cintura di colline
sparse di castelli, d'abazie a di villaggi.

Erano diventati entrambi agricoltori per forza; uno avrebbe preferito il
mestiere delle armi l'altro i piaceri della città, ma i casi della vita
li avevano costretti a rinunziare ai loro gusti e a ritirarsi in
campagna. L'amore dei campi venne più tardi, dopo la lunga consuetudine,
dopo le attrattive della natura e la necessità del lavoro. Il suolo
coltivato attira il coltivatore il quale vi si fissa, come l'albero
colle radici.

Il capitano visse i primi anni nella solitudine; dopo lo sbalordimento
delle guerre napoleoniche, dopo le prove ardimentose de' suoi
commilitoni, dopo i gloriosi fatti d'armi che onorarono gl'Italiani in
varie parti d'Europa, egli si trovava sorpreso ed umiliato di dover
sopportare la dipendenza d'un popolo che giudicava inferiore, per meriti
militari e civili, ai suoi compatriotti; ridotti in schiavitù da
trattati diplomatici, non contratti da essi anzi contrari alla loro
volontà, e pur troppo tollerati, con colpevole indifferenza ed inerzia
nei momenti decisivi.

L'antica repubblica veneta degenerata nel lungo ozio e nella vita molle
e gaudente, aveva lasciato i caratteri fiacchi, e dopo le rapide prove
dei vari governi succeduti al suo dominio, i nobili e i preti
preferivano l'Austria: il grosso della popolazione restava indifferente,
mancava d'educazione politica e di energia. I pochi avanzi degli
eserciti napoleonici sentivano troppo tardi il dolore della patria
perduta, ed il bisogno dell'indipendenza nazionale.

Il governo austriaco entrato come liberatore, si era fissato
stabilmente, passando dalle promesse alle minaccie, perseguitando e
condannando come un delitto di Stato l'amore di patria, ispirato dalla
natura e dalla storia.

Agli ufficiali delle guerre europee, lasciati in disparte, non rimaneva
altro partito che quello di consolarsi della schiavitù colla memoria dei
fatti compiuti, e colla lontana speranza di ritornare in campo, a tempo
propizio.

Erano rari superstiti di grandi avventure, ma bastavano a tener viva la
scintilla del patriottismo, a spargere le idee, ad apparecchiare le
forze necessarie a rivendicare i diritti conculcati della patria. E
intanto raccontavano quella storia di rapide e meravigliose conquiste,
così precipitosamente perdute, e ne raccoglievano le immagini con
religiosa devozione.

Tutte le pareti della casa del capitano Bonifazio, erano ornate di
gloriosi ricordi. Statue, busti, ritratti di Napoleone, in tutti i
costumi, dal costume adamitico scolpito da Canova, fino a quello col
manto e la corona; ce n'erano a piedi, a cavallo, e sul trono. Ma la
preferita era la statuetta di gesso, colla semplice divisa dei
cacciatori della guardia, col piccolo cappello senza galloni, cogli
stivali alla scudiera, le braccia incrociate sul petto, in atto
d'osservazione.

C'erano grandi e piccoli quadri delle battaglie più gloriose.

Montenotte, Lodi, Arcole, Rivoli, Marengo, Cairo, Austerlitz, Jena,
Wagram, Moskowa.

C'era una camera coi ritratti dei generali francesi che ebbero titoli
italiani. Massena duca di Rivoli, Augeran duca di Castiglione, Victor
duca di Belluno, Moncey duca di Conegliano, Savary duca di Rovigo,
Mortier duca di Treviso.

Pochi ritratti di generali italiani, perchè molti erano entrati
nell'esercito austriaco.

In apposita stanza aveva raccolto le tremende memorie della Russia. Un
quadro rappresentava l'incendio di Mosca; un altro una marcia di feriti
sulla neve, inseguiti dai Cosacchi; nel terzo si vedeva la presa di
Malo-Jeroslawetz eseguita dalla divisione Pino, sostenuta dai cacciatori
della Guardia reale italiana. Il quarto era il passaggio della Beresina.
Fra le vedute c'erano i ritratti, dei generali che più si distinsero in
Russia, Davout, Murat, Ney, il principe Eugenio, e qualche altro.

Nelle lunghe ore delle giornate piovose, il capitano Bonifazio faceva il
giro delle stanze, si arrestava davanti ai suoi quadri, riviveva in quel
passato, e nelle rare volte che era costretto di recarsi a Treviso pe'
suoi affari, si fermava per le strade dove passavano i soldati
austriaci, e guardava con pietà quei poveri Croati negri e segaligni, e
le faccie bonarie dei Boemi, e alzava le spalle pensando che Massena con
50,000 Francesi non esitava ad attaccare 80,000 Austriaci, comandati
dall'arciduca Carlo, e li vinceva a Caldiero; e nutriva un fastidioso
disprezzo pei suoi concittadini, che non si accorgevano nemmeno di
appartenere ad una nazione eroica, nella quale gli pareva che un uomo
con uno spiedo avrebbe infilzato come tanti polli quattro o cinque di
quei poveri diavolacci, ma invece bastavano due uomini e un caporale per
scortare a Vienna i furgoni delle svanziche, colle quali gli Italiani
del regno Lombardo-Veneto pagavano all'Austria il diritto di possedere i
propri campi e le case dove erano nati.

E il capitano Bonifazio tornava alla sua villa fosco annuvolato, e guai
a chi gli capitava fra i piedi.

Per soddisfare, almeno in parte, a quel bisogno che sentiva di attività
e di lavoro, vangava e potava, piantava alberi e arbusti, vigneti e
frutteti, disegnava viali, sconvolgeva la terra, seminava, trapiantava e
mieteva.


A poco a poco si avvide d'aver fatto un parco magnifico, troppo
superiore alla sua modesta condizione, ma davanti allo stupendo
spettacolo della natura, dimenticava le umane miserie. E talvolta
combatteva la umiliante teorica del maestro Zecchini, per semplice
impulso della propria dignità; ma pensando al doloroso destino della
patria, non poteva in tutto dar torto al suo vicino di campagna, almeno
nel fondo dell'anima.

Allora diventava più indulgente pel povero maestro, sturava una
bottiglia di vino vecchio, e lo invitava a bere alla salute della
patria. Zecchini correva a chiudere l'uscio e le finestre, perchè
nessuno potesse udire la loro imprudenza. Il capitano si accorgeva della
paura del compagno, stralunava gli occhi, atteggiava tutti i suoi
lineamenti al più profondo disprezzo, ritornava bisbetico e dispettoso e
pensava fra sè: "tacere le proprie opinioni, nascondere come un delitto
i più naturali sentimenti, è una delle tristi necessità di chi è
costretto di vivere sotto il giogo" e tracannando in fretta il suo
bicchiere di vino, suonava il campanello.

Poco dopo compariva Mosè per fare la solita partita a terziglio col
padrone, e il vicino. Mosè fu uno degli ultimi coscritti di Napoleone,
aveva servito il capitano al reggimento, e continuava a servirlo
fedelmente dal tempo che deposte le armi, si erano ritirati in campagna.
Era il vero amico, e il più fido compagno del padrone, gli faceva da
segretario e da castaldo, da giardiniere e da cuoco. Passavano la sera
colle carte in mano per evitare le questioni estranee al giuoco; il
capitano diffidava del maestro, il maestro aveva paura del capitano; si
guardavano in cagnesco, e Mosè collocato fra loro rappresentava il
terreno neutro, e teneva in riguardo i due amici.... nemici.