Testo - "La cartella N. 4" Marchesa Colombi

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Dal trentuno dicembre al primo gennaio, non c'è che quel tempo
inafferrabile, d'una brevità infinitesimale, che corre tra l'ultimo
minuto secondo della dodicesima ora, al primo minuto secondo della
prima; - il passaggio identico di ciascun giorno dell'anno al suo
domani; un attimo, una pulsazione, nulla.

Eppure tutti consideriamo la fine dell'anno come un punto fermo, come la
chiusura d'un periodo. Pare che tutte le cose intraprese debbano essere
compiute a quell'epoca, e che pel primo dell'anno venturo s'abbia da
ricominciare tutto daccapo.

La Chiesa inaugura il nuovo anno col Veni creator; i commercianti
chiudono i conti, ed i privati (pur troppo!) ci mettono il saldo; si
rinnovano i libri mastri; si licenziano o si confermano gl'impiegati;
chiunque ha l'incarico d'una gestione qualsiasi presenta il resoconto.

I giornali perdono dei collaboratori e ne acquistano di nuovi; e
proclamano che i nuovi sono genî e quelli perduti non valevano nulla,
senza tener conto dei pomposi elogi con cui li avevano annunciati l'anno
precedente; ed aprono nuove rubriche e nuovi abbonamenti fanno nuovi
programmi e nuove promesse.

Si è arrivati a quella stazione di fermata: che si chiama il capo
d'anno. Si riparte per un nuovo viaggio dove tutto è ignoto; ci si avvia
alle speranze; ciascuno dice sospirando chissà! come se da quell'ieri
a quell'indomani il mondo fosse interamente mutato, e le probabilità di
bene o di male preparate nell'anno precedente non contassero più; come
se le conseguenze del 1880 non avessero più nessun rapporto colle
premesse del 1879; come se quell'atomo di tempo che sfugge ad ogni
calcolo, dovesse spezzare tutti i vincoli tra le cause e gli effetti.

Mi ricordo quand'ero piccina, in temporibus illis, che trepidazione mi
si metteva nel cuore quando s'avvicinavano le feste di Natale e capo
d'anno!

Eravamo una serie di cugini che ci trovavamo tutti insieme il giovedì e
la domenica. - Si faceva, naturalmente, un chiasso dell'altro mondo; e,
per una decina di giovedì, ed una decina di domeniche prima delle feste,
la zia Catterina che parlava a proverbi, quando si sentiva rompere il
capo dai nostri gridi, ci gettava contro, come una minaccia, il suo
proverbio di circostanza: - Anno nuovo, vita nuova!

Noi restavamo tutti colpiti, e ci guardavamo l'un l'altro cogli occhi
sbarrati come per leggerci a vicenda nella mente l'idea di quella vita
nuova misteriosa ed ignota. - Cosa sarà?

E noi pure avevamo da scrivere lettere e recitare complimenti con una
serie d'auguri agli altri e di propositi nostri per l'anno che
cominciava. Ed intanto, per incoraggiarci a quei propositi di lavoro,
d'obbedienza, di virtù, c'erano i doni di capo d'anno che fioccavano da
tutte le parti. - Mamma, babbo, nonni materni e paterni, zii, prozii, da
lontano, da vicino, tutti i parenti, noti ed ignoti, risalendo fino a
certe parentele ipotetiche e lontane che non ci riesciva di capire,
tutti mandavano la strenna.

Erano processioni di bambole d'ogni dimensione, d'ogni condizione
sociale, dalla gran dama che arriva tra le nevi di gennaio in abito
scollato, scortata da un ricco mobiglio e da un abbondante corredo, fino
alla contadinetta di legno col vestitino corto di tela color di rosa
incollato sulla persona, e senza il lusso d'una calzetta o d'una
camicia.

Erano reggimenti di soldatini di piombo e di legno, ulani, croati,
bersaglieri, chasseurs d'Afrique, horseguards, - tutte le armi e tutte
le nazioni, e tutti fraternizzavano sui nostri tavolini da gioco,
confondevano, scambiavano le bandiere, stringevano le alleanze più
imprevedute per impegnarsi in guerre mostruose, compievano atti
d'eroismo da far impallidire i Fabi ed i Maccabei, poi ad un tratto,
colti da un panico inesplicabile, s'abbandonavano alle fughe più
vergognose da cui risultavano vittorie incredibili, paci stupefacenti.

Ricordo quando gli anni furono passati per le bambole e pei soldatini,
quando noi altre fanciulle cominciammo a portare gli abiti lunghi ed i
maschi andarono all'università. Allora pel capo d'anno c'erano tutti i
presagi della nostra sorte futura. La sera prima, si metteva sulla
finestra una tazza d'acqua; e la mattina si dovevano vedere sulla
superficie di quell'acqua gelata gli emblemi dell'arte o del mestiere
del futuro marito. Erano sempre un'infinità di lineette diritte e
sottili che s'incrociavano in tutti i sensi; sembravano tanti aghi, ed
avevano finito a persuaderci che per tutte noi non c'era altra speranza
che di sposare un sarto.

Poi la mattina, appena alzata, ogni ragazza prendeva una pianella e la
gettava in alto. Se andava a cadere colla punta verso l'uscio, era certo
che la signorina sarebbe uscita da casa nell'annata per andare a marito;
altrimenti c'era un altro anno da aspettare, un'altra pianella da
buttare in aria, e chissà poi quanti anni e quante pianelle!

E nell'uscire di casa bisognava prestare una grande attenzione alla
prima persona che s'incontrava. - Se era un prete si moriva entro
l'anno; se era un giovinotto si pigliava marito; se era una fanciulla
s'invecchiava zitella; se era un soldato guai in famiglia; se era una
vecchia, triste annata in ogni senso.

Ne avevamo da raccontare per tutta la giornata di capo d'anno. - E poi
si narravano i doni avuti; erano doni più seri che quando eravamo
bambini, ma c'erano sempre. Ogni parente portava il suo: qualche vezzo,
qualche ornamento per le nostre camerette, e sopratutto libri; -
abbondavano i libri. I Promessi sposi legati in rosso, volta a volta
li abbiamo avuti tutti; poi L'Angela Maria del Carcano, poi la
Corinne della Staël; e così via via, man mano che crescevamo, si
passava dalla Bibliothèque Rose della Ségur, che ci aveva inspirati i
primi entusiasmi, fino a libri meno rosei che ci facevano pensare e
piangere.