Eccomi a Napoli; eccomi finalmente in questa terra promessa ad incarnare
il sogno dorato della mia vita. Non ti ho scritto subito, perchè la
confusione del mio povero cervello, appena piovuto in questa enorme
voragine, è stata tale da non permettermi di farlo. Ora però che ho
ripreso fiato e che ho cominciato a riordinarmi le idee fino ad oggi
sparpagliate e frullate in tondo come foglie secche dal vento, mi faccio
una festa di mantenerti la promessa e di scriverti qualche cosa da
questo paese. La sera stessa del mio arrivo, vidi il nostro caro Enrico
che m'era venuto incontro alla stazione. Cascammo l'uno nelle braccia
dell'altro come due feriti al core; ci abbracciammo, ci stringemmo come
pazzi e dopo un breve, ma furioso assalto di domande che non aspettavan
risposta, si montò di volo in una vispa carrozzella e subito, per non
perder tempo, senza pensare a valige, a stanchezza, a nulla, una corsa
attraverso alla immensa città. - Vetturino, a Mergellina! - e giù, a
trotto serrato per Toledo, Chiaja e la Villa Reale, trasportato come in
sogno fra la romba e il brulichìo vertiginoso d'una folla compatta che
si apriva a stento al nostro passaggio e si richiudeva subito dietro
alla carrozzella come una massa liquida, su la quale galleggiassero
migliaia e migliaia di cappelli e di teste umane. Che brio, che vita,
che baraonda, amico mio, che maraviglioso disordine era quello per il
nuovo e piccolo arrivato! Mi parve a un tratto d'esser diventato
invisibile, e mi sentii là dentro come un grano di miglio turbinato nei
vortici d'una enorme pentola a bollore! Ma ero troppo stanco da
potermela godere. Mi doleva il capo, mi frizzavano gli occhi ed avevo
tanto bisogno di riposo, che nulla potei intendere nè gustare del troppo
lauto banchetto così improvvisamente offerto a' miei sensi.
Di questa prima corsa per le vie di Napoli ne ho un ricordo confuso come
d'una cosa accadutami anni ed anni indietro. Ho negli orecchi il ronzìo
di serenate che incontrammo lungo la riviera di Chiaja; mi pare di
rammentarmi di fiammate in mezzo alla via, intorno alle quali ballavano
strillando centinaia di ragazzi mezzi nudi, e dei lumi del gas che mi
bucavano gli occhi, e della luna e delle stelle che brillavano
cullandosi nel mare, e di Capri tuffata nei vapori del crepuscolo, e del
Vesuvio! Dio, Dio, il Vesuvio! il suo pennacchio, i suoi bagliori
sanguigni! Ma tutto confuso, tutto annebbiato come il ricordo d'un ballo
fantastico veduto da fanciullo, o come le idee d'un nebuloso poeta del
Nord che viaggia ispirato attraverso al regno dei sogni.
Mi domandi di Roma. Ma che posso io dirti d'una città di quella natura,
dopo avervi passato appena tre giorni, e dopo averla appena sfiorata al
di fuori girando disperatamente dalla mattina alla sera per le sue
strade intrigate? Roma è troppo grande per la mia piccolezza; non mi
domandare di Roma. All'insetto che portatovi dal vento ha vagato per tre
giorni su le cupole di Santa Sofia, chiederesti con lo stesso profitto
le sue impressioni a proposito di Moschee.
I suoi giganteschi ruderi che sbucano dal terreno come costole
petrificate d'un enorme colosso male interrato o come avanzi d'un immane
pasto di Ciclopi, mi hanno empito di sgomento e di terrore; la Roma dei
Papi, dalla quale temevo trovarmi abbagliato, ha raccolto gli avanzi del
suo fasto orientale e dorme ad occhi spalancati nel Vaticano; la Roma
nuova, la Roma italiana l'ho appena avvertita in un ristretto spazio,
dove, timida e chiacchierona, si striscia ai piedi del padron di casa e
si arrabatta e brulica e sgambetta con la rettorica in una mano e la
pila elettrica nell'altra, affaticandosi invano a galvanizzare un
cadavere, che resta immobile sotto i suoi sforzi impotenti. Che posso io
dirti di Roma? Dio assista i galvanizzatori e, nella sua immensa
misericordia, non confonda le loro favelle!
Ed ora parliamo di Napoli.
Io non conosco i paesi dell'Oriente, nè conosco la Spagna altro che
dalle descrizioni dei viaggiatori, dai libri letti, dai dipinti e dalle
fotografie; ma se questo può servire, come io credo, a dare una idea
abbastanza esatta di quelle regioni, l'aspetto della città di Napoli mi
sembra tale, fuorchè in otto o dieci delle principali vie, da porre
addirittura il visitatore italiano nella illusione di trovarsi mille
chilometri lontano dalla sua patria, balestrato per incantesimo su
qualche porto della Valenza o della Catalogna.
Vie strette, fiancheggiate da case generalmente altissime con facciate
sopraccariche di balconi e che vanno a terminare, senza aggetto di
gronda, in una linea tagliente e spezzata sul fondo del cielo;
profusione in ogni parte di ornamenti barocchi e di vivaci colori
malamente accozzati fra loro; tipi e modi degli abitanti; clima, nomi di
alcune strade e persino molti vocaboli passati intatti nel loro dialetto
dalla lingua spagnola, e tante e tante altre particolarità che ora mi
sfuggono, tutto ricorda quel paese, da ogni lato ti corrono all'occhio o
all'udito schiettissime tracce della lunga occupazione spagnola.
Domandai ad un catalano di mia conoscenza, e glie lo domandai da vero: -
Sembra spagnolo anche a voi l'aspetto di questa città? - Mi rispose: -
Bendate un mio compatriotta, toglietegli la benda dopo averlo condotto
in qualcuno dei vichi o delle rue di questo paese, e griderà: sono a
casa mia.
il sogno dorato della mia vita. Non ti ho scritto subito, perchè la
confusione del mio povero cervello, appena piovuto in questa enorme
voragine, è stata tale da non permettermi di farlo. Ora però che ho
ripreso fiato e che ho cominciato a riordinarmi le idee fino ad oggi
sparpagliate e frullate in tondo come foglie secche dal vento, mi faccio
una festa di mantenerti la promessa e di scriverti qualche cosa da
questo paese. La sera stessa del mio arrivo, vidi il nostro caro Enrico
che m'era venuto incontro alla stazione. Cascammo l'uno nelle braccia
dell'altro come due feriti al core; ci abbracciammo, ci stringemmo come
pazzi e dopo un breve, ma furioso assalto di domande che non aspettavan
risposta, si montò di volo in una vispa carrozzella e subito, per non
perder tempo, senza pensare a valige, a stanchezza, a nulla, una corsa
attraverso alla immensa città. - Vetturino, a Mergellina! - e giù, a
trotto serrato per Toledo, Chiaja e la Villa Reale, trasportato come in
sogno fra la romba e il brulichìo vertiginoso d'una folla compatta che
si apriva a stento al nostro passaggio e si richiudeva subito dietro
alla carrozzella come una massa liquida, su la quale galleggiassero
migliaia e migliaia di cappelli e di teste umane. Che brio, che vita,
che baraonda, amico mio, che maraviglioso disordine era quello per il
nuovo e piccolo arrivato! Mi parve a un tratto d'esser diventato
invisibile, e mi sentii là dentro come un grano di miglio turbinato nei
vortici d'una enorme pentola a bollore! Ma ero troppo stanco da
potermela godere. Mi doleva il capo, mi frizzavano gli occhi ed avevo
tanto bisogno di riposo, che nulla potei intendere nè gustare del troppo
lauto banchetto così improvvisamente offerto a' miei sensi.
Di questa prima corsa per le vie di Napoli ne ho un ricordo confuso come
d'una cosa accadutami anni ed anni indietro. Ho negli orecchi il ronzìo
di serenate che incontrammo lungo la riviera di Chiaja; mi pare di
rammentarmi di fiammate in mezzo alla via, intorno alle quali ballavano
strillando centinaia di ragazzi mezzi nudi, e dei lumi del gas che mi
bucavano gli occhi, e della luna e delle stelle che brillavano
cullandosi nel mare, e di Capri tuffata nei vapori del crepuscolo, e del
Vesuvio! Dio, Dio, il Vesuvio! il suo pennacchio, i suoi bagliori
sanguigni! Ma tutto confuso, tutto annebbiato come il ricordo d'un ballo
fantastico veduto da fanciullo, o come le idee d'un nebuloso poeta del
Nord che viaggia ispirato attraverso al regno dei sogni.
Mi domandi di Roma. Ma che posso io dirti d'una città di quella natura,
dopo avervi passato appena tre giorni, e dopo averla appena sfiorata al
di fuori girando disperatamente dalla mattina alla sera per le sue
strade intrigate? Roma è troppo grande per la mia piccolezza; non mi
domandare di Roma. All'insetto che portatovi dal vento ha vagato per tre
giorni su le cupole di Santa Sofia, chiederesti con lo stesso profitto
le sue impressioni a proposito di Moschee.
I suoi giganteschi ruderi che sbucano dal terreno come costole
petrificate d'un enorme colosso male interrato o come avanzi d'un immane
pasto di Ciclopi, mi hanno empito di sgomento e di terrore; la Roma dei
Papi, dalla quale temevo trovarmi abbagliato, ha raccolto gli avanzi del
suo fasto orientale e dorme ad occhi spalancati nel Vaticano; la Roma
nuova, la Roma italiana l'ho appena avvertita in un ristretto spazio,
dove, timida e chiacchierona, si striscia ai piedi del padron di casa e
si arrabatta e brulica e sgambetta con la rettorica in una mano e la
pila elettrica nell'altra, affaticandosi invano a galvanizzare un
cadavere, che resta immobile sotto i suoi sforzi impotenti. Che posso io
dirti di Roma? Dio assista i galvanizzatori e, nella sua immensa
misericordia, non confonda le loro favelle!
Ed ora parliamo di Napoli.
Io non conosco i paesi dell'Oriente, nè conosco la Spagna altro che
dalle descrizioni dei viaggiatori, dai libri letti, dai dipinti e dalle
fotografie; ma se questo può servire, come io credo, a dare una idea
abbastanza esatta di quelle regioni, l'aspetto della città di Napoli mi
sembra tale, fuorchè in otto o dieci delle principali vie, da porre
addirittura il visitatore italiano nella illusione di trovarsi mille
chilometri lontano dalla sua patria, balestrato per incantesimo su
qualche porto della Valenza o della Catalogna.
Vie strette, fiancheggiate da case generalmente altissime con facciate
sopraccariche di balconi e che vanno a terminare, senza aggetto di
gronda, in una linea tagliente e spezzata sul fondo del cielo;
profusione in ogni parte di ornamenti barocchi e di vivaci colori
malamente accozzati fra loro; tipi e modi degli abitanti; clima, nomi di
alcune strade e persino molti vocaboli passati intatti nel loro dialetto
dalla lingua spagnola, e tante e tante altre particolarità che ora mi
sfuggono, tutto ricorda quel paese, da ogni lato ti corrono all'occhio o
all'udito schiettissime tracce della lunga occupazione spagnola.
Domandai ad un catalano di mia conoscenza, e glie lo domandai da vero: -
Sembra spagnolo anche a voi l'aspetto di questa città? - Mi rispose: -
Bendate un mio compatriotta, toglietegli la benda dopo averlo condotto
in qualcuno dei vichi o delle rue di questo paese, e griderà: sono a
casa mia.