Si mise a mangiare, voracemente. E io, che avevo terminato il mio
modesto asciolvere, sorseggiando un caffè e fumando mezzo toscano mi
misi a guardarlo come se lo vedessi per la prima volta.
Alto, magro, con le spalle incurvate, con una gran barba grigiastra e
incolta pel cui pelo intricato or si disseminavano le briciole del pane
e le gocce del brodo untuoso, con orribili mani dalle dita nodose e
lunghe che parevano artigli, mal vestito, tutto chiuso in un vecchio
cappotto stinto e rattoppato il cui bavero che un tempo era stato ornato
di pelo marrone or ne serbava solo quattro o cinque ignobili ciuffetti,
il mio compagno di ufficio de Laurenzi, un uomo sui sessanta anni
suonati, incarnava pittorescamente la pietosa straccioneria del
travettismo. Ammogliato, carico di figliuoli e di piccoli debiti pe'
quali il suo stipendio era strappato a brani e giorno per giorno alla
cassa dell'economo, egli era un di quelli sciagurati il cui contatto
uggioso ve ne sollecita quasi a non indulgere alle volgari abitudini e
a' miserabili vizii, ma ch'io m'inducevo a creder degno, il più delle
volte, della più malinconica commiserazione.
Era stato - raccontava - giornalista di grido, nell'Alta Italia, a' suoi
be' tempi: lo era ancora qui, adesso, in una gazzetta quotidiana che
stentava parecchio la vita e nelle cui trascurate colonne il de Laurenzi
poneva, di volta in volta, certe sue rievocative narrazioni partenopee
scialbe e sciatte, disseminate di ampollosi rimpianti e miserabilmente
intessute sulle cronache de' giornali del tempo, in cui frugava tutta la
santa giornata.
Nella biblioteca governativa, ov'ero anch'io, il de Laurenzi era entrato
quando essa aveva a capo un prelato di cui bastava soltanto soddisfare
l'olimpica vanità per guadagnare, se non la stima, la indifferente
acquiescenza. Morto costui la biblioteca non aveva più potuto offerire
alle gratuite libertà che l'ex giornalista vi s'era conquistate un
comodo asilo remuneratore. Ora bisognava lavorare e frequentare
l'ufficio. Il nuovo bibliotecario era severissimo: guardava nel registro
d'ingresso degl'impiegati, segnava le ore e i minuti a' tardi arrivati,
mandava in giro, di volta in volta, ordini del giorno in cui si
raccomandavano lo zelo, l'ossequenza all'orario, la diligenza ne'
compiti, e pretendeva che tutti firmassero quelli ukase in segno di
rispettosa adesione.
Una schiavitù, sissignori: una soppressione spietata, implacabile,
dell'ingegno e della personalità, una scettica considerazione dell'io
pensante e creante, degli altrui nervi, dell'altrui cultura quando non
fosse quella delle scienze naturali e delle matematiche, nelle quali
quel nuovo direttore era spaventosamente agguerrito.
Ah, sì: portate in questi polverosi e silenziosi antri, foderati della
storia cartacea del pensiero umano, portatevi, se vi riesce, la
giovialità, l'arditezza, il libero arbitrio, la poesia, l'indipendenza:
portatevi il vostro talento, la vostra modernità, le vostre abitudini
sincere e svegliate, se vi vorrete vedere a mano a mano sfiorire tutta
codesta ancor viva giovinezza dell'animo vostro! Mio Dio, che aridità e
che tristezza tra queste mute pareti, gravi d'in folio e
d'enciclopedie: tra queste mura sorde a ogni voce impulsiva e pur così
impregnate de' pettegolezzi, delle invidie e delle guerricciuole che
costituiscono il tessuto connettivo della vita degl'impiegati, il
continuo esercizio della loro parola aspra e mordace, l'alimentazione
quotidiana dell'ozio e dell'ignoranza del loro pensiero!
Che diamine, dunque, pretendeva di non volere lasciare qui, come un
brano del suo cuore dolente, il mio compagno de Laurenzi? E di dove gli
veniva tutto questo attaccamento atavo-topografico, espresso con tanto
impeto melodrammatico? Io non sapevo, in verità, figurarmi e ammettere
tra il baccalà alla livornese e l'evocazione paterna alcuna tollerabile
analogia. Quest'uomo dunque componeva con tanta assoluta ignoranza della
loro espressione dissimile le sensazioni della psiche e la più brutale
delle soddisfazioni fisiologiche?
modesto asciolvere, sorseggiando un caffè e fumando mezzo toscano mi
misi a guardarlo come se lo vedessi per la prima volta.
Alto, magro, con le spalle incurvate, con una gran barba grigiastra e
incolta pel cui pelo intricato or si disseminavano le briciole del pane
e le gocce del brodo untuoso, con orribili mani dalle dita nodose e
lunghe che parevano artigli, mal vestito, tutto chiuso in un vecchio
cappotto stinto e rattoppato il cui bavero che un tempo era stato ornato
di pelo marrone or ne serbava solo quattro o cinque ignobili ciuffetti,
il mio compagno di ufficio de Laurenzi, un uomo sui sessanta anni
suonati, incarnava pittorescamente la pietosa straccioneria del
travettismo. Ammogliato, carico di figliuoli e di piccoli debiti pe'
quali il suo stipendio era strappato a brani e giorno per giorno alla
cassa dell'economo, egli era un di quelli sciagurati il cui contatto
uggioso ve ne sollecita quasi a non indulgere alle volgari abitudini e
a' miserabili vizii, ma ch'io m'inducevo a creder degno, il più delle
volte, della più malinconica commiserazione.
Era stato - raccontava - giornalista di grido, nell'Alta Italia, a' suoi
be' tempi: lo era ancora qui, adesso, in una gazzetta quotidiana che
stentava parecchio la vita e nelle cui trascurate colonne il de Laurenzi
poneva, di volta in volta, certe sue rievocative narrazioni partenopee
scialbe e sciatte, disseminate di ampollosi rimpianti e miserabilmente
intessute sulle cronache de' giornali del tempo, in cui frugava tutta la
santa giornata.
Nella biblioteca governativa, ov'ero anch'io, il de Laurenzi era entrato
quando essa aveva a capo un prelato di cui bastava soltanto soddisfare
l'olimpica vanità per guadagnare, se non la stima, la indifferente
acquiescenza. Morto costui la biblioteca non aveva più potuto offerire
alle gratuite libertà che l'ex giornalista vi s'era conquistate un
comodo asilo remuneratore. Ora bisognava lavorare e frequentare
l'ufficio. Il nuovo bibliotecario era severissimo: guardava nel registro
d'ingresso degl'impiegati, segnava le ore e i minuti a' tardi arrivati,
mandava in giro, di volta in volta, ordini del giorno in cui si
raccomandavano lo zelo, l'ossequenza all'orario, la diligenza ne'
compiti, e pretendeva che tutti firmassero quelli ukase in segno di
rispettosa adesione.
Una schiavitù, sissignori: una soppressione spietata, implacabile,
dell'ingegno e della personalità, una scettica considerazione dell'io
pensante e creante, degli altrui nervi, dell'altrui cultura quando non
fosse quella delle scienze naturali e delle matematiche, nelle quali
quel nuovo direttore era spaventosamente agguerrito.
Ah, sì: portate in questi polverosi e silenziosi antri, foderati della
storia cartacea del pensiero umano, portatevi, se vi riesce, la
giovialità, l'arditezza, il libero arbitrio, la poesia, l'indipendenza:
portatevi il vostro talento, la vostra modernità, le vostre abitudini
sincere e svegliate, se vi vorrete vedere a mano a mano sfiorire tutta
codesta ancor viva giovinezza dell'animo vostro! Mio Dio, che aridità e
che tristezza tra queste mute pareti, gravi d'in folio e
d'enciclopedie: tra queste mura sorde a ogni voce impulsiva e pur così
impregnate de' pettegolezzi, delle invidie e delle guerricciuole che
costituiscono il tessuto connettivo della vita degl'impiegati, il
continuo esercizio della loro parola aspra e mordace, l'alimentazione
quotidiana dell'ozio e dell'ignoranza del loro pensiero!
Che diamine, dunque, pretendeva di non volere lasciare qui, come un
brano del suo cuore dolente, il mio compagno de Laurenzi? E di dove gli
veniva tutto questo attaccamento atavo-topografico, espresso con tanto
impeto melodrammatico? Io non sapevo, in verità, figurarmi e ammettere
tra il baccalà alla livornese e l'evocazione paterna alcuna tollerabile
analogia. Quest'uomo dunque componeva con tanta assoluta ignoranza della
loro espressione dissimile le sensazioni della psiche e la più brutale
delle soddisfazioni fisiologiche?