Giugno mite, dolcissimo, avea sorriso alle cose con l'ultima sua tepida
giornata. Il piccolo vecchio sedeva in una pur vecchia poltrona ancora
pienotta, nell'angolo della finestra. Le mani carezzavano i pomi dei
bracciuoli; leggermente china la testa sul petto, gli occhi socchiusi,
egli era vinto da un languore, nella rosea poesia del tramonto.
Si spandeva per la silenziosa stanzuccia quel lume vago, dorato, che
dà alla pelle un colore d'incarnato, come lo dà una candela alla mano
che ripara la fiammella. Entrava da per tutto, bagnando mollemente i
mobili d'antica sagoma, i ritratti ingialliti dei quali veniva fuori
nettamente la cornice dal parato, tutto sparso di mazzolini di fiori
che invecchiavano anch'essi sopra un fondo d'azzurro.
Tutto là dentro era antico, di quel barocco, non molto esagerato, al
quale s'afferra ancora la vecchiezza dei tempi nostri che sorride alle
abitudini de' tempi suoi e del caro ambiente si circonda ad evocarne,
triste, i ricordi. Quella vecchiezza che tiene a coprirsi il capo
d'una papalina di velluto marrone, ricamata d'oro e foderata di seta;
dalla voluminosa cravatta nera di cui cinge tre volte il collo e che
annoda poi sotto il mento; dalle camicie di tela fine che sentono di
buon odore di spiganardo e che l'amido gonfia sul petto; dai polsini
attaccati alla camicia, co' margini rotondi, chiusi da un semplice
bottoncino di pastiglia liscia, attaccato col filo. Una vecchiezza che
si compiace di lunghi soprabiti verde bottiglia, dal bavero alto, di
calzoni di panno molle che non fanno pieghe a star impiedi e appena
sfiorano l'orlo della scarpa a nastrini, lasciando apparire la calza
ruvida e bianca. Una vecchiezza che ama il tabacco da naso, ma che
all'occasione sa divenire gioventù e corteggiare belle signore, e darsi
la baia a tempo, prima che altri glie la dia, e canzonarsi mentre
si china a baciare una mano grassottella o s'impettisce offrendo il
braccio saldo a far passeggiare, per la casa, le conoscenze femminili.
Per celia egli disse una volta che voleva morir canticchiando, innanzi
alla spinetta, co' lumi accesi nella sala, mentre un ballettino si
preparava e suonavano risatine di perle tra un fruscio di strascichi
serici.
Ahimè, povere illusioni! Ora, da tempo, nel suo cuore che inaridiva
morivano, come alle orecchie moriva ogni suono, tutte quelle gioconde
spensieratezze. Una grave sordità lo aveva colto, improvvisamente. Era
stato dapprima un ronzìo, come allo svegliarsi da un sonno faticoso,
poi fu un silenzio eterno. Non udì più nemmanco lo sbattere fragoroso
delle porte che si tirava dietro la serva Clementina. Ai primi giorni,
quando costei, stupefatta, dovette fargli capire con atti della mano
quanto volesse dirgli, lui ne prese, per la gran pena, un febbrone,
e rimase cinque giorni a letto. Clementina si sfogava in cucina,
singhiozzando, come se qualcuno le fosse morto, innanzi al pollaio, ove
molti pulcini schiamazzavano.
A poco a poco il piccolo vecchio si rassegnò.
Ma ne' gravi silenzii, in cui si sentiva perduto, una invincibile
sonnolenza lo appesantiva. Gli veniva voglia di morire addormentandosi.
Da tre anni, così, non avea più nulla scritto. Tutta la santa giornata
la passava solo solo, nella poltrona favorita, seguendo liberi voli
di rondini che migravano pei tetti, fantasticando, leggiucchiando il
Poliorama pittoresco, del quale conservava tutta la collezione.
Con lui, che ne' modi e negli abiti mai si era mutato, la cameretta
armonizzava. Abitudini di mezzo secolo vi aveano lasciata la loro
orma, un profumo di vecchiezza nella mobilia dorata, della quale,
come i gomiti al soprabito del padrone, lucevano gli angoli logorati,
una voluta aggiustatezza sulle mensole di marmo bianco, nei cantucci
in penombra, pieni di mistero. Un sorriso malinconico aleggiava tra
le pareti, come un rimpianto; dormiva da tempo la stanzuccia. Uno
specchio ovale, dalla bianca cornice filettata d'oro, si copriva di
polvere sul vetro, riflettendo confusamente, come in una nebbia, le
cose della mensola su cui poggiava: due vasi da fiori artificiali, un
grande orologio di bronzo dorato del quale, da cinque anni, le lancette
segnavano il tocco, un vassoio di porcellana con le sue tazze a
medaglioni pompeiani, e una piccola Venere nuda, di bronzo. L'Amorino,
che la bella dea si recava tra le braccia, le metteva le manine sugli
occhi.
Dalla parete di faccia un Rossini, a pastello, con la dedica, vigilava
nella camera, la punta delle dita nello sparato del soprabito, l'occhio
piccolo e vivo, pien di malizia.
Da per tutto, qua e là, messe in ordine accosto a' mobili, sedie dalla
impagliatura ingiallita, dalla spalliera piatta e larga, verniciata
di bianco, istoriata nel mezzo da figurine di cavalieri in parrucca e
codino, i quali, premendo al petto il cappello a lucerna, s'inchinavano
a damine rubiconde, che sorridevano, spiegazzato il ventaglio di piume.
Presso all'uscio maggiore, del quale una cortina nascondeva il vano,
sopra una di quelle seggiole riposava un cappello di feltro, alto,
dalle tese rigide. Un bastone dal pomo d'avorio s'appoggiava alla
seggiola.
Pareva che il padrone, a momenti, dovesse uscire di casa. Due pantofole
ricamate si nascondevano in un angolo.
In fondo, nella luce dolce ed eguale, la sagoma scura della spinetta
richiamava l'occhio, con la sua immobile tranquillità. Teneri riflessi
scendevano pel legno pulito, spegnendosi sul tappeto, macchiando di
bianche lucentezze quel mobile.
Dalla sua poltrona il piccolo vecchio faceva correr lo sguardo
compiaciuto sul leggìo, sulle carte da musica ammucchiatevi accanto.
L'occhio carezzava la pallida fila della tastiera, le mani desiderose
fremevano sui bracciuoli della poltrona.
giornata. Il piccolo vecchio sedeva in una pur vecchia poltrona ancora
pienotta, nell'angolo della finestra. Le mani carezzavano i pomi dei
bracciuoli; leggermente china la testa sul petto, gli occhi socchiusi,
egli era vinto da un languore, nella rosea poesia del tramonto.
Si spandeva per la silenziosa stanzuccia quel lume vago, dorato, che
dà alla pelle un colore d'incarnato, come lo dà una candela alla mano
che ripara la fiammella. Entrava da per tutto, bagnando mollemente i
mobili d'antica sagoma, i ritratti ingialliti dei quali veniva fuori
nettamente la cornice dal parato, tutto sparso di mazzolini di fiori
che invecchiavano anch'essi sopra un fondo d'azzurro.
Tutto là dentro era antico, di quel barocco, non molto esagerato, al
quale s'afferra ancora la vecchiezza dei tempi nostri che sorride alle
abitudini de' tempi suoi e del caro ambiente si circonda ad evocarne,
triste, i ricordi. Quella vecchiezza che tiene a coprirsi il capo
d'una papalina di velluto marrone, ricamata d'oro e foderata di seta;
dalla voluminosa cravatta nera di cui cinge tre volte il collo e che
annoda poi sotto il mento; dalle camicie di tela fine che sentono di
buon odore di spiganardo e che l'amido gonfia sul petto; dai polsini
attaccati alla camicia, co' margini rotondi, chiusi da un semplice
bottoncino di pastiglia liscia, attaccato col filo. Una vecchiezza che
si compiace di lunghi soprabiti verde bottiglia, dal bavero alto, di
calzoni di panno molle che non fanno pieghe a star impiedi e appena
sfiorano l'orlo della scarpa a nastrini, lasciando apparire la calza
ruvida e bianca. Una vecchiezza che ama il tabacco da naso, ma che
all'occasione sa divenire gioventù e corteggiare belle signore, e darsi
la baia a tempo, prima che altri glie la dia, e canzonarsi mentre
si china a baciare una mano grassottella o s'impettisce offrendo il
braccio saldo a far passeggiare, per la casa, le conoscenze femminili.
Per celia egli disse una volta che voleva morir canticchiando, innanzi
alla spinetta, co' lumi accesi nella sala, mentre un ballettino si
preparava e suonavano risatine di perle tra un fruscio di strascichi
serici.
Ahimè, povere illusioni! Ora, da tempo, nel suo cuore che inaridiva
morivano, come alle orecchie moriva ogni suono, tutte quelle gioconde
spensieratezze. Una grave sordità lo aveva colto, improvvisamente. Era
stato dapprima un ronzìo, come allo svegliarsi da un sonno faticoso,
poi fu un silenzio eterno. Non udì più nemmanco lo sbattere fragoroso
delle porte che si tirava dietro la serva Clementina. Ai primi giorni,
quando costei, stupefatta, dovette fargli capire con atti della mano
quanto volesse dirgli, lui ne prese, per la gran pena, un febbrone,
e rimase cinque giorni a letto. Clementina si sfogava in cucina,
singhiozzando, come se qualcuno le fosse morto, innanzi al pollaio, ove
molti pulcini schiamazzavano.
A poco a poco il piccolo vecchio si rassegnò.
Ma ne' gravi silenzii, in cui si sentiva perduto, una invincibile
sonnolenza lo appesantiva. Gli veniva voglia di morire addormentandosi.
Da tre anni, così, non avea più nulla scritto. Tutta la santa giornata
la passava solo solo, nella poltrona favorita, seguendo liberi voli
di rondini che migravano pei tetti, fantasticando, leggiucchiando il
Poliorama pittoresco, del quale conservava tutta la collezione.
Con lui, che ne' modi e negli abiti mai si era mutato, la cameretta
armonizzava. Abitudini di mezzo secolo vi aveano lasciata la loro
orma, un profumo di vecchiezza nella mobilia dorata, della quale,
come i gomiti al soprabito del padrone, lucevano gli angoli logorati,
una voluta aggiustatezza sulle mensole di marmo bianco, nei cantucci
in penombra, pieni di mistero. Un sorriso malinconico aleggiava tra
le pareti, come un rimpianto; dormiva da tempo la stanzuccia. Uno
specchio ovale, dalla bianca cornice filettata d'oro, si copriva di
polvere sul vetro, riflettendo confusamente, come in una nebbia, le
cose della mensola su cui poggiava: due vasi da fiori artificiali, un
grande orologio di bronzo dorato del quale, da cinque anni, le lancette
segnavano il tocco, un vassoio di porcellana con le sue tazze a
medaglioni pompeiani, e una piccola Venere nuda, di bronzo. L'Amorino,
che la bella dea si recava tra le braccia, le metteva le manine sugli
occhi.
Dalla parete di faccia un Rossini, a pastello, con la dedica, vigilava
nella camera, la punta delle dita nello sparato del soprabito, l'occhio
piccolo e vivo, pien di malizia.
Da per tutto, qua e là, messe in ordine accosto a' mobili, sedie dalla
impagliatura ingiallita, dalla spalliera piatta e larga, verniciata
di bianco, istoriata nel mezzo da figurine di cavalieri in parrucca e
codino, i quali, premendo al petto il cappello a lucerna, s'inchinavano
a damine rubiconde, che sorridevano, spiegazzato il ventaglio di piume.
Presso all'uscio maggiore, del quale una cortina nascondeva il vano,
sopra una di quelle seggiole riposava un cappello di feltro, alto,
dalle tese rigide. Un bastone dal pomo d'avorio s'appoggiava alla
seggiola.
Pareva che il padrone, a momenti, dovesse uscire di casa. Due pantofole
ricamate si nascondevano in un angolo.
In fondo, nella luce dolce ed eguale, la sagoma scura della spinetta
richiamava l'occhio, con la sua immobile tranquillità. Teneri riflessi
scendevano pel legno pulito, spegnendosi sul tappeto, macchiando di
bianche lucentezze quel mobile.
Dalla sua poltrona il piccolo vecchio faceva correr lo sguardo
compiaciuto sul leggìo, sulle carte da musica ammucchiatevi accanto.
L'occhio carezzava la pallida fila della tastiera, le mani desiderose
fremevano sui bracciuoli della poltrona.