Testo - "L'assedio di Firenze" Francesco Domenico Guerrazzi

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Ma se straniere erano le vesti, il volto lo diceva italiano, nato alla
grandezza e alla sventura. Sopra la sua fronte sublime potevano la
gioia e il dolore spiegarsi nell'ampiezza della loro potenza; e certo
sovente se ne alternarono il dominio: se non che la gioia fugace la
percosse appena col ventilare delle sue ali leggerissime di farfalla,
mentre il dolore vi lasciò la impronta delle sue varie procelle, a
guisa d'iscrizioni funerarie sopra la fascia dei sepolcri. Quel suo
sguardo acuto manifestava ingegno prepotente, un ingegno capace di
fissare lo splendore dei cieli, volgerlo alla terra e in un baleno
d'intelligenza comprendere i pensieri, le sensazioni, gli affetti che
passano tra i pianeti e la terra, fra il creatore e la creatura, e
quindi sollevato dal fango tornarlo di nuovo a fissare nel firmamento,
come protesta immortale contro lo spirito che accolse l'idea della
stella e del fango, del piacere e dell'angoscia, del palpito dell'amore
e del verme della putrefazione, del tiranno e dello schiavo; e ne
lanciò a piene mani la moltitudine nel mondo quasi in retaggio di
maledizione alla stirpe che si pentì di aver creato con anima e lingua
bastevole a rimandargli contro una maledizione. Da molto tempo la
sua bocca obliò il sorriso che nasce dalla vista della bellezza, dai
racconti delle imprese onorate, da quando insomma, commovendo, ha virtù
di esaltare l'anima umana. L'affanno inaridisce tutti senza distinzione
gli affetti, la lacrima del pari che il sorriso, come fa delle piante e
dei fiori il vento del deserto. Ben egli ancora rideva, ma un brivido
del cuore sembrava cagionasse cotesta crispazione convulsa delle
labbra; le morbide curve disegnate dalla bocca quando susurra parole
di amore erano sparite; invece si scomponeva in triste linee angolari,
come colui che gusta per errore una bevanda amara.

E non pertanto, malgrado segni così profondi di rovina spirituale, due
corde vibravano eterne in quel cuore: la poesia e la speranza. Egli
aveva provato il pane dell'esilio, nè quel suo passo incerto nasceva da
noncuranza, no; quando prima lo mosse, ebbe in pensiero di recarsi a un
punto determinato; poi la gioia di rivedere, dopo gli anni incresciosi
dell'esilio, i luoghi diletti della sua giovanezza lo vinse sì che,
dimentico di ogni altra cosa ora si aggirava alla ventura per le vie
di Firenze. Oh quanto è funesta amica la memoria al povero esiliato!
Quanto mal destra consolatrice! Invece d'infondere sopra la piaga olio
e vino come il Samaritano dell'Evangelo, senza volerlo vi sparge
zolfo infiammato. La memoria i casi più riposti della vita ricerca
limpidissima, senso comparte ed affetto ai luoghi cari per un ricordo
di amore, cari eziandio per lo stesso dolore: e poi tutte queste cose
rallegrando col raggio più puro che mai scintillasse in cielo italiano,
ad ora ad ora ne abbaglia lo spirito all'esule, non altrimenti che il
fanciullo, per giuoco raccolta la luce del sole entro uno specchio, si
compiace rapire per un momento la vista al passeggero con un oceano
di splendore. Però l'esule si strugge nell'agonia di un desiderio
febbrile e, consumato da cotesta ardente contemplazione, comprende in
qual maniera i Greci antichi potessero imporre alle furie il nome di
Eumenidi, che significa dolci. E perchè dovea una parte della
città preporre all'altra? Non componevano tutte la diletta sua patria?
Errava così alla ventura, perchè dovunque si volgesse incontrava
argomenti di pietà, di piacere e di travaglio.

Se i luoghi percorsi un qualche bel fatto cittadino o una strage
fraterna gli rammentassero, avresti potuto conoscere dal passo, che
ora procedeva più lento ed ora si accelerava come se premesse lastre
di fuoco. Adesso notava le masse portentose dei palazzi baronali,
fatte più smisurate dalle tenebre, e gemeva su gli odii che gli
ostelli destinati al quieto vivere civile tramutarono in fortezze; e
più lungamente ancora si tratteneva a considerare le umili case dei
popolani appoggiate a coteste superbe dimore per averne sostegno,
nel modo stesso che nel mondo i deboli si raccomandano ai potenti
per conseguirne tutela; e nel modo stesso che nel mondo i deboli, dal
continuo curvarsi, acquistano soltanto avvilimento e abbandono, cotesti
abituri per la prossimità delle soverchianti magioni venivano a perdere
la luce e il vivido circolare dell'aria. Procedendo oltre, penetrava
con gli sguardi dentro le officine degli artefici; e tentennando
il capo, contemplava quei volti plebei che la necessità colorisce e
corruga, e quelle mani che muove il bisogno di un pane e la passione
di un eroe; quelle mani che mosse dalla piena del cuore guadagnano una
corona al capo o una catena ai piedi.

Però la virtù non si era anche fatta inusitata sotto i tetti signorili,
nè la misura dell'anima procedeva alla rovescia con la larghezza dei
luoghi che la ricettano: pure ella fin d'allora le modeste più che le
sublimi case si compiaceva visitare.